Palermo, Valentina Chinnici: uso il calcio per
ottenere l'attenzione dei miei ragazzi
«Li rincorro per farli stare seduti
Mi provocano per vedere se cedo».
STUDENTI DIFFICILI. A volte sei senza parole.
Cosa puoi dire ad un allievo
che spacca il naso al compagno più debole?
Marco Imarisio da
Il Corriere della Sera del
23/3/2007
Ogni tanto quelle parole dei suoi compagni di
corso le tornano alla mente, quando la voce le si spezza, e gli occhi
si fanno lucidi. «Ora questa vuole che si deve studiare, magari?» «Ma
che dice questa? È antica!» «Professoressa,
un sì cuosa» , non ce la fai. Dopo aver cominciato a lavorare in un
«esamificio», una di quelle scuole private dove basta che paghi,
Valentina ha vinto il concorso ed è finita alla Gregorio Russo, una
scuola media definita nelle circolari «ad utenza difficile», quartiere
Borgo nuovo alla periferia di Palermo.
Uno di quei posti dove te la devi guadagnare, la lezione. L'ostacolo
più alto è quello della «scolarizzazione», termine orrendo e nuovo che
fondamentalmente indica come il professore deve per prima cosa
insegnare come si sta in classe. «Devo rincorrerli per farli stare
seduti». Valentina pensa a sua madre, che aveva classi di 50 alunni, e
quando entrava l'insegnante si mettevano sull'attenti. Lei di scolari
ne ha solo una quindicina, eppure ogni giorno è una fatica bestiale.
«A volte ti senti disarmato, senza parole. Cosa puoi dire a un tuo
allievo che con una testata ha appena spaccato il setto nasale al
compagno più debole? Che non si fa? Lo sa bene, che non si fa. Lo
sospendi? Così l'hai perso per sempre, e chissà dove finisce».
All'inizio, tornava a casa e piangeva. «La cosa più umiliante è che
loro smettono solo quando capiscono che sei sul punto di rottura. È un
continuo provocare per metterti alla prova, vediamo se ti spezziamo
come abbiamo fatto con gli altri. Un mio amico pedagogo dice che è il
loro modo di chiedere aiuto. Io so solo che è dura, proprio dura».
Nelle scuole come questa, capita spesso che si crei una comunione tra
insegnanti, un legame comune per affrontare e aiutare ragazzi e
famiglie che sono come mari in tempesta. «Io ho imparato tutto da
Mario e Mariella, colleghi più anziani di me. Ma questo è mutuo
soccorso. E il resto?».
Valentina Chinnici è una ragazza colta e sensibile, che parla con
pudore di sé, della sua fede, delle vacanze passate al monastero di
Bose dal priore Enzo Bianchi, le settimane bibliche e la lectio
divina. E si capisce che quel silenzio è l'unico contraltare possibile
al rumore dei suoi ragazzi difficili, a un'esperienza che prosciuga.
Un anno fa, la pace e le tranquillità interiore non sono bastate, e
Valentina «ha fatto il botto», come dicono a Palermo. Si è presa un
periodo di sabbatico, attratta dalle sirene dell'università, un
assegno di ricerca, una vita più gratificante. Il primo febbraio di
quest'anno è tornata, in quello stesso Istituto per il quale provava
allo stesso tempo amore e repulsione. «Io non voglio andare in una
scuola bene. Quello dove lavoro è un Istituto difficile, ed è il posto
dove c'è bisogno e dove deve stare un buon insegnante, quel che io
voglio diventare». Sarà anche vero che una persona deve trovare le
motivazioni dentro di sé, ma conta anche come ti guarda la gente.
«L'altro giorno ho incontrato un vecchio professore universitario al
quale ho raccontato della mia decisione. "Sono molto deluso", mi ha
detto guardandomi con commiserazione. E in fondo, lo capisco». Non è
vero che si vive di solo pane, ci vuole anche dell'altro. Rispetto,
considerazione, chiarezza. «Nelle scuole medie è stato smantellato
quasi tutto. Una rivoluzione all'anno. Siamo sommersi di progetti e
concorsi, cose ambiziosissime rivolte a ragazzi che non fanno
attenzione neppure se a spiegare Dante c'è Naomi Campbell». Adesso per
la grammatica si usa il metodo naturale, un modo per insegnare la
lingua viva. Ma i libri di testo sono ancora fermi al
soggetto-predicato verbale- complemento oggetto. «E io che faccio, non
li insegno? E se per sbaglio uno di questi ragazzi poi va al liceo? Ho
contribuito a creare un frustrato. Qualcuno mi vuole dire che devo
fare? Oppure, lasci che sia io a decidere. Nella legge sulle scuole di
base c'è l'articolo 6 che parla di "autonomia di ricerca,
sperimentazione, sviluppo". Fateci provare, almeno».
Valentina ha fatto la sua scelta, vuole solo essere aiutata a non
pentirsene, perché lei a quella frase sul fiammifero nel buio di
catacomba ci crede con tutta se stessa. Pochi giorni fa, in una di
quelle giornate in cui non riusciva ad accendere neppure uno sguardo,
si è ricordata di Sandro Piccinini. «Lo volete capire che siamo
allenatore e squadra? Io ho fiducia in voi». Alla fine della lezione
la ragazza più tremenda, quella che ancora doveva degnarla di uno
sguardo, quella che «non mi rompere, tanto io non faccio niente», che
tutti danno ormai per persa, 13 anni appena, l'ha fermata sulla porta.
C'era una luce strana nei suoi occhi, come se fosse lei, questa volta,
ad avere paura. «Minchia professorè, ma dici vero che tu hai fiducia
in una come me?». Valentina l'avrebbe abbracciata, ma non poteva,
perché gli insegnanti amici fanno più danno dei genitori amici. «Sì,
ho fiducia in te». «E quando c'è il ricevimento questa cosa a mia
madre la dici?». Gliela dirà, tranquilla. Bisognava sentirla,
Valentina, mentre raccontava questo episodio. La sua voce,
l'espressione del suo sguardo. Ci sono dei momenti che ne vale la
pena, anche a costo di scottarsi le dita.