In altre parole.
Pasquale Almirante, da
DocentINclasse, 12/3/2007
In altre parole c’era da
aspettarselo in un ambiente (tutta la Nazione) nel quale mai si era
aperto un dibattito franco e soprattutto paritario fra alunni e
insegnanti anche se rattrista l’occasione nel quale è nato. La morte
violenta di un ispettore di polizia (un papà come altri milioni
costretto anche lui a fare la fila durante l’ora di ricevimento coi
docenti e in trepidazione per i risultati quadrimestrali) per mano di
un bulletto (un alunno che ha frequentato le scuole e che è stato
informato sui logaritmi e sulla poesia dell’ottocento) ha indotto i
ragazzi del liceo Spedalieri di Catania a scrivere una lettera aperta
ai loro professori chiedendo che “qualcuno li aiuti a trovare il senso
del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la loro domanda di
felicità e di verità”.
E su quella lettera, e la conseguente risposta dei docenti, si è
aperta una sorta di battaglia ideologica nella quale gli interlocutori
che si sono man mano succeduti, ancora una volta, si sentono tenutari
di verità certe, mentre il Corriere del 10 scorso avverte: “Ma ciò che
rende terribile quella lettera (dei professori) è il nichilismo
pedagogico che sembra ispirarla, il fatto cioè che professori e
professoresse vi sostengano che la scuola, loro stessi dunque,
risposte non debbono neanche provare a darne. La scuola, secondo loro,
dovrebbe infatti limitarsi a «stimolare domande»; quanto al «senso
della vita», che nella loro lettera quasi disperata gli studenti
dichiaravano di aver perso o non aver mai trovato, ebbene, che
ciascuno cerchi da solo le «risposte adeguate al proprio percorso»”.
Per non correre il rischio di mettere sul tavolo altre verità, diciamo
subito che abbiamo assunto come maestro di cose dell’educazione,
piuttosto che il sempre citato Socrate, Edgar Morin che afferma: “E’
sorprendete che l’educazione sia cieca su ciò che è la conoscenza
umana e che non si preoccupi affatto di far conoscere che cosa è
conoscere”. Da questa semplice, ma complessa, osservazione ne
desumiamo che i ragazzi per il fatto stesso che chiedano qualcosa
abbiamo già in loro il senso stesso della conoscenza perchè
fondamentalmente sanno cosa vogliono: verità e felicità anche se non
individuano i percorsi per il loro raggiungimento. Ma chi conosce
queste strade? E il fatto stesso che le chiedano dovrebbe rendere
felici (sic) i loro insegnanti-maestri perché questi alunni ci
appaiono una di quelle elite spirituale “sapiente” in cerca del famoso
quid frugato inutilmente da Amleto.
In moltissime scuole di frontiera (e quante ce ne siano solo pochi
missionari-docenti lo sanno) il difficilissimo è riuscire a far
leggere agli alunni un solo brano del tormento di Faust e del suo
scellerato patto per essere felice di un fuggevolissimo attimo. In
quelle aule sta il vero problema e nella confusione fra i modelli
sanciti dal degrado e quelli proposti dalla scuola in cerca di una
sintesi culturale verso la felicità e il senso della vita. E che la
scuola non possa dare risposte alle domande dei ragazzi appare balzano
per il fatto stesso che la ricerca della felicità e del senso della
vita è in tutta la letteratura dalle origini barbariche ai nostri
giorni, comprese le cosiddette scienze esatte. Altrimenti quale fine
avrebbe l’educazione e la cultura?
Dice ancora Morin: “E’ necessario che tutti coloro che hanno il
compito di insegnare si portino negli avamposti dell’incertezza del
nostro tempo, insegnando a navigare in un oceano di incertezze
attraverso arcipelaghi di certezze.” E gli arcipelaghi sono li che
attendono e che accolgono quando l’arte della maieutica è ben
posseduta e il maestro-guida conduce con sapienza e rigore la rotta.
Insegnare la comprensione e l’etica del genere umano rientra nella
missione del professore, ma nelle sue funzioni, al di là di qualunque
laicità o confessionalità che hanno tutto il sapore delle categorie
politiche più trite, rientra pure l’insegnamento della “condizione
umana” che è l’oggetto essenziale di ogni didattica.