Lo stesso accento, la pelle di un altro colore.
Come vivono nella nostra scuola i figli degli
immigrati stranieri.
Maria Teresa Martinengo,
La Stampa dell'8/5/2008
TORINO
Thelma e Josè, per esempio. La loro mamma era arrivata a Torino nel
‘96 e in un anno era riuscita a sistemarsi. Così era tornata in Perù a
prendere Thelma, la piccola, lasciando Josè, di poco più grande, con
il marito. Thelma è cresciuta a Torino, Josè ci è arrivato da
adolescente. Le loro storie, parallele eppure molto diverse, sono
contenute nella ricerca della Fondazione Agnelli «Approssimandosi.
Vita e città dei giovani di seconda generazione a Torino»: una zoomata
sui figli degli immigrati stranieri per descriverne la condizione in
Italia oggi. Condizione non omogenea. Lo studio distingue quattro
«categorie»: i nati qui, cioè seconda generazione in senso stretto,
gli arrivati in età pre-scolare, i ragazzi emigrati tra i 6 e i 12
anni e quelli che hanno raggiunto i genitori tra i 13 e i 17. Va da sé
che più cresce l’età al momento del distacco dal paese d’origine, più
il percorso di integrazione può presentarsi segnato da difficoltà.
Questo risulta evidente, per esempio, nella percezione del proprio
radicamento in Italia. Tra gli 850 studenti che hanno risposto al
questionario, alla domanda «Ti senti italiano? » hanno risposto
positivamente quasi il 60% dei ragazzi di seconda generazione e oltre
il 50% dei giunti in età prescolare,ma solo il 12% degli immigrati in
età adolescenziale. L’età di arrivo conta molto anche nella capacità
di stringere rapporti con i coetanei italiani: il 62% dei giovani di
seconda generazione fa amicizia facilmente, mentre quasi il 70% degli
arrivati in età adolescenziale ritiene sia difficile.
Ed è a scuola che i ragazzi figli di immigrati incontrano la città.
Thelma ha fatto tutto il suo percorso scolastico a Torino e
attualmente frequenta un istituto professionale turistico. La scuola
per lei, così come per i ragazzi stranieri arrivati molto piccoli, ha
rappresentato il principale luogo di integrazione, non solo culturale
e linguistico, ma anche sociale. «E’ nella scuola che il bambino e il
ragazzo prendono confidenza con la diversità del mondo in cui vivono -
spiegano i ricercatori - ma è sempre nella scuola che si registrano
anche dinamiche perverse di gruppo che possono sfociare in episodi di
razzismo e di violenza. L’essere o il sentirsi osservati, il dover
emergere ed affrancarsi rispetto agli stereotipi e agli atteggiamenti
di esclusione del diverso, rappresentano una sfida quotidiana». Nei
racconti dei ragazzi, ed anche in quello di Thelma, sono ricorrenti i
rimandi ai momenti di passaggio in cui non è scontato riuscire a
ricostruirsi un’immagine, un ruolo nella classe in cui si viene
inseriti. Ha raccontato, per esempio, che avere un cognome straniero a
scuola può costituire un problema. Lei ha superato bene tutte le
difficoltà. «Ma non è sempre così. La scuola può essere il luogo in
cui si accentuano le differenze».
Per Josè, arrivato a Torino dopo la fine delle superiori, il primo
anno è stato molto pesante: la ricerca di un lavoro, senza punti di
riferimento, senza amici... La svolta è arrivata con la scuola: un
corso di italiano serale, tre volte la settimana. Tornare a scuola è
stato per lui un’opportunità per ripensare a quel che voleva fare, ma
anche per incontrare altri giovani stranieri, parlare, condividere
problemi, uscire da una condizione di sospensione.