ITALIA SOTTO ACCUSA
Scuola dei somari lo straniero non ci sta.
I figli degli immigrati chiedono più severità:
per loro la meritocrazia rappresenta
l’unico modo di annullare le disuguaglianze sociali e farsi largo
nella vita
Alberto Papuzzi, La Stampa del
7/6/2007
La scuola italiana «è troppo facile» e «non c'è
disciplina». La grande maggioranza degli studenti italiani «fa quel
che vuole». E per giunta nelle aule «ci si fa le canne». Gli
insegnanti poi «non si fanno rispettare». E i programmi? «Sono più
indietro, specie nelle materie scientifiche», rispetto al livello di
altri paesi europei e asiatici. Ma soprattutto quella italiana è una
scuola «che non premia il merito». Una scuola che non garantisce
vantaggi ai più bravi.
Lo dicono quelli che meno ti aspetti: gli studenti stranieri di
seconda generazione, figli di immigrati arrivati da paesi con una
tradizione scolastica (Romania, Bulgaria, Moldavia, Ucraina, Cina, Sri
Lanka) e decisi a sfruttare la scuola come un pass per farsi largo
nella vita. Che siano proprio loro a chiedere una scuola meritocratica
sembra un paradosso, invece è il fenomeno forse più sorprendente man
mano che si evolvono i processi di integrazione.
«Il dato viene fuori da una serie di interviste in profondità sulle
seconde generazioni di immigrati - dichiara Stefano Molina,
ricercatore alla Fondazione Agnelli -. Alla domanda "C'è qualcosa che
vorresti andasse meglio a scuola?" una studentessa cinese risponde:
"Le professoresse dovrebbero essere molto più severe". C'è una
mediatrice culturale che dice: "La scuola italiana è un posto dove non
si combina molto, e le famiglie degli immigrati sono preoccupate
perché i loro figli non imparano. O imparano male"». In un meeting di
Torino Internazionale il ricercatore della Fondazione Agnelli ha usato
la metafora dell'asticella del salto: «Comunità come africani e
sudamericani - ci spiega - chiedono che l'asticella sia posta più in
basso, in modo che i loro ragazzi possano scavalcarla facilmente. Ma
altre comunità come i rumeni, gli ucraini o i cinesi fanno pressione
perché l'asticella sia alzata, in modo che i loro studenti possano
farsi valere. In molti immigrati cresce la consapevolezza che una
scuola senza meritocrazia riproduce le disuguaglianze sociali». Se per
accedere al mercato del lavoro e per salire la scala sociale non
contano i risultati conseguiti nello studio, allora tornano a contare
moltissimo la famiglia benestante o lo zio notaio.
Il fenomeno è stato già studiato in Francia, Germania, Gran Bretagna,
Stati Uniti. Le ricerche hanno messo in luce l'aggressività con cui
studenti immigrati di seconda generazione combattono a scuola la
battaglia per emergere, anche contro il progressismo multiculturale
che vorrebbe favorire i processi d'integrazione. Ma nessun paese
europeo è riuscito a trovare l'equilibrio fra integrazione e
competitività, secondo Jonathan Chaloff, ricercatore inglese che ha
lavorato al Cespi e ora è all'Ocse, autore fra l'altro di Scuole e
migrazioni in Europa (con Luca Queirolo Palmas): «Direi che hanno
fallito tutti, chi per un verso chi per un altro, e non abbiamo un
sistema europeo standard per trattare i rapporti fra immigrazione e
scuola. In Germania, per esempio, non si sono fatti investimenti
sull'apprendimento della lingua tedesca, con il problema che diverse
generazioni di immigrati non riescono a padroneggiarla. In Italia è
evidente che comunità come gli asiatici o gli ucraini sono deluse
dalla nostra scuola. I genitori ucraini che ho intervistato mi
dicevano che è “priva di valori”. Inoltre in alcune materie -
matematica, musica, lingue - il livello d'insegnamento nelle scuole
dell'Est è decisamente più alto che in Italia».
La resa scolastica degli immigrati dipende d'altronde da molti fattori
diversi. «Le ricerche americane mettono in evidenza tre aspetti circa
le differenze nelle prestazioni scolastiche dei figli di immigrati -
dichiara il sociologo Maurizio Ambrosini, milanese che insegna
all'Università di Genova, direttore scientifico del Centro studi
migrazioni nel Mediterraneo -. Il loro livello dipende da quello
socioculturale dei genitori: siamo abituati a collocare gli immigrati
in un rango basso, e non cogliamo la qualità della loro istruzione e
il capitale umano che rappresentano per i figli. Inoltre più del paese
di provenienza pesa il momento dell'arrivo: chi è arrivato da
adolescente fa più fatica rispetto a chi è arrivato da bambino, o
addirittura è nato nella nuova patria. Infine le ricerche mostrano che
vanno meglio i ragazzi di comunità coese, con un controllo sociale sui
comportamenti dei singoli».
Che cosa dicono gli insegnanti che affrontano questi problemi nella
vita quotidiana? Per Marilena Capellino, preside della scuola media
torinese Nevio Matteotti, è del tutto plausibile che dagli immigrati
venga una richiesta di meritocrazia. Nel suo complesso, su 950
studenti, il 12 per cento sono figli di colf e badanti: filippini,
cinesi, rumeni, ucraini. «Dopo la terza media tutti proseguono gli
studi. Li vedo lavorare assai bene. Hanno alle spalle famiglie
motivate, desiderose che i figli facciano bene. Molti meritano i
complimenti, fanno una grossa fatica: oltre a impadronirsi
dell'italiano, la scuola gli chiede altre due lingue. Noi li seguiamo
anche per il primo anno delle superiori. La loro riuscita è un
feedback importante». Le ricerche della Fondazione Agnelli dicono che
questi studenti hanno idee chiare sul futuro: non a caso sognano di
diventare magistrati, medici o matematici.