Grandi maestre la memoria
Rivoluzione Montessori
Il 6 gennaio 1907 nasceva nel quartiere popolare
romano di San Lorenzo Simonetta Fiori, la Repubblica del 6/1/2007
E anche questa la storia di una rivoluzione o di una «scoperta», come usava definirla l’artefice. La scoperta del bambino, non più appendice mortificata dell’adulto ma espressione di qualcosa «incommensurabilmente grande e prezioso». E come in molte rivoluzioni e conquiste, nei suoi recessi si nasconde un segreto. Accadde a San Lorenzo, storico quartiere romano, esattamente un secolo fa. Al numero 53 di via dei Marsi, il 6 gennaio del 1907, fu inaugurata la prima Casa dei bambini diretta da Maria Montessori. Un progetto sociale, oltre che educativo, presto imitato in tutto il mondo. Nell’Italia giolittiana rilucente di iniziative filantropiche e progressiste, una cordata di banchieri guidata dall’ingegnere Eduardo Talamo aveva deciso di ridare dignità alle case di San Lorenzo, ospitandovi anche scuole materne dal taglio innovativo. Fu così che un borgo degradato, sovraffollato di disoccupati e mendicanti, divenne ben presto una "mecca dell’educazione", visitata da ministri e pedagogisti venuti da lontano. Un modello di crescita civile, che sarà celebrato da personalità diverse quali Freud e Gandhi. Il giorno dell’apertura, fissato per la festa della Befana, nel fruscio di rasi e velluti delle dame accorse per l’esperimento, cinquanta creaturine si aggrappavano le une alle altre come spaventate da tanto clamore. «Piangevano e sembrava che avessero paura di tutto», racconta Maria Montessori. «Non accettavano doni né rispondevano se interrogati. Erano proprio bambini selvaggi». Ignoravano certo di essere protagonisti del capovolgimento che avrebbe segnato la pedagogia del Novecento, e anche la storia delle donne, alleggerite nell’impegno materno e restituite al ruolo di lavoratrici. Un’innovazione paragonabile a quella compiuta da Giotto nell’arte: la pittura come rappresentazione del sistema di relazioni (lo spazio) in cui ogni cosa (figura od oggetto) trova significato nel rapporto con le altre. Anche le case montessoriane possono essere considerate un’espressione artistica della società, nella quale i bambini tra oggetti e arredi costruiti a loro misura liberano energie e potenzialità imbrigliate da una lunga tradizione autoritaria. Nasce a San Lorenzo il mondo dalla parte dei bambini. Poteva progettarlo soltanto una donna vissuta nel clima oppressivo dell’accademia di fine Ottocento - fu la prima laureata in Medicina - e tra le severe regole della borghesia intellettuale di ispirazione liberale, certo stimolante ma inflessibile nell’assegnare alle ragazze della Nuova Italia ruoli subalterni e tradizionali. Una donna per di più segnata da un misterioso lutto, riflesso anche nelle raffinate vesti sempre rigorosamente nere. Un personaggio sfuggente, sfaccettato, per molti versi contraddittorio, l’allora trentasettenne Maria Montessori. Educatrice massimamente celebrata e tuttavia madre mancata e ferita, costretta dai tempi a ripudiare il figlio clandestino avuto nel 1898 da Giuseppe Montesano, suo brillante collega di clinica psichiatrica. Un segreto emerso dalle nebbie di complicità famigliari e devozionali soltanto alcuni anni fa, grazie alla bella e inconsueta biografia dell’olandese Marjan Schwegman. Ne affiora una creatura trasparente e oscura, lieve e ingombrante, vanitosa e austera, fautrice del libero sviluppo delle energie individuali e nel contempo aspramente autoritaria, straordinaria analista dell’infanzia e insieme incline ad annoiarsene («Credono che sia una sentimentale romantica, che sogna solo di vedere bambini, baciarli, vezzeggiarli. Generalmente mi annoiano!»). Uno spirito libero, culturalmente nomade: né positivista né idealista, troppo irrequieta per piacere alle gerarchie cattoliche. Ribelle e anticonformista - nell’innovazione pedagogica, nelle battaglie protofemministe, nell’umanizzazione della medicina - ma non fino a riconoscere il figlio Mario, lasciato a una famiglia sconosciuta. L’agnizione avverrà più tardi, nel 1913, quando il ragazzo ha 15 anni. Ne scaturirà una delle più belle e intense storie d’amore tra madre e figlio. Ma dall’atto originario dell’abbandono era intanto germogliata quella "pedagogia liberatrice" che, scrive la Schwegman, «con lo strumento dell’amore impersonale prova ad aiutare i piccoli ad adattarsi alla vita». Contrastato dalla cultura idealistica, il Metodo non ebbe da noi la fortuna che ebbe altrove, soprattutto nei paesi anglosassoni. La sua fama arrivò fulmineamente in America, dove le traduzioni della bibbia montessoriana si esaurirono in pochi giorni. Presto seguiranno le edizioni francese, tedesca, polacca e russa, e ancora giapponese, rumena, irlandese, spagnola e olandese, infine danese. Una Carnegie Hall strapiena accolse la Montessori nel 1913 a New York: senza sapere una parola d’inglese, stregò la platea con la sua voce fonda e le pause studiate. Negli anni Venti, in Inghilterra, si contendeva la fama con Guglielmo Marconi. E in Italia? I riconoscimenti non le mancarono, ma tra molte ostilità. Il suo modello pedagogico derivava dall’osservazione diretta dei bambini, non da consolidate correnti di pensiero. Alle obiezioni della pedagogia idealistica s’aggiunse più tardi l’ostilità della Chiesa cattolica. Anche il contrastato rapporto con Mussolini non fu di aiuto. «Una gran rompiscatole!», sbotterà lui negli anni Trenta. La Grande maestra riparò altrove, tra Spagna, India e Olanda. La morte la raggiungerà nel 1952 in un piccolo villaggio davanti al Mare del Nord. Il dopoguerra, in Italia, fu prodigo di omaggi, ma alla fama della protagonista non si accompagnò una reale diffusione del Metodo, partito da un borgo popolare e rimasto sempre appannaggio d’una élite, spesso caricaturizzato come dissennata scuola di anarchia e tirannide infantile. Lei si lamentava spesso di essere trattata come un elefante da circo. «Io vi indico il bambino e voi invece vi entusiasmate: oh che bello il dito che indica…». Agli anni Novanta risale una sorta di riappropriazione, con il ritratto sulle mille lire, la riedizione da Garzanti di tutte le sue opere e la biografia della Schwegman tradotta nella collana del Mulino dedicata all’identità italiana. «Alcune cose fondamentali del suo insegnamento - il principio dell’autonomia, il lavoro manuale, l’importanza dello spazio verde, la sollecitazione a mettere in relazione discipline diverse - sono entrate pur inconsapevolmente in tutte le scuole», dice Giovanna Castaldo Pagnotta, la maestra montessoriana che ha educato al silenzio e alla concentrazione tre generazioni di bambini e ancora continua a farlo nella sua preziosa scuola romana di via di Grottarossa. Dopo tre anni di esperienza diretta con Maria Montessori, inaugurò nella capitale la prima materna laica, più di mezzo secolo fa. Se le si chiede cosa è rimasto del Metodo, risponde citando la sua maestra: «Durante un corso a Perugia, nei primi anni Cinquanta, le si avvicinò una folla di devote moleste. "Dottoressa, secondo il Metodo Montessori si può fare così?", e via con un cinguettio insopportabile. La vidi voltarsi di scatto, brusca e imperiosa. Le fulminò: "Non esiste il Metodo Montessori. Esiste la vita"».
Sempre più solitario ed eroico appare il lavoro di queste maestre in
un mondo che va in tutt’altra direzione. Insegnano il silenzio in
realtà assordate dal rumore. Parlano con voce flautata mentre fuori
l’umanità grida. Stimolano la curiosità e l’autonomia in generazioni
ipnotizzate da videogiochi e tv. Dov’è finito il «bambino prezioso»
per la sua unicità tra i nostri piccoli despoti, tutti eguali,
omologati e un po’ storditi? Selvaggi del nuovo secolo, così lontani
dai loro coetanei di San Lorenzo, cent’anni fa. |