I docenti d´accordo con la proposta: è una
generazione ingovernabile,
"Non sanno più stare attenti Marina Cavalieri la Repubblica del 20/1/2007
ROMA - Parole bisbigliate di traverso mentre il compagno legge il Petrarca, messaggini inviati senza distogliere lo sguardo dalla cattedra quando il professore parla delle vittorie di Augusto, squilli soffocati alle spalle dell´insegnante che disegna un´ellissi. «Avevo stabilito che il cellulare non andava portato in classe, se qualcuno lo avesse fatto lo doveva tenere spento nello zaino, altrimenti lo avrei buttato dalla finestra». La professoressa Rosalba Conserva insegnava in un istituto tecnico, come molti adulti ha combattuto la sua personale guerra contro il cellulare in classe. Anche lei, come molti altri, più che perderla o vincerla, ha ottenuto solo qualche sporadica tregua. «Un giorno ne trovai uno e come promesso lo buttai dalla finestra». Un gesto estremo contro un fastidio, un pericolo, una deriva del comportamento. Usa il cellulare il 95 per cento dei ragazzi tra i 14 e i 16 anni, quasi il cento per cento di quelli tra i 17 e i 18, ma spunta, invasivo, anche tra i banchi delle elementari. È il guinzaglio di una generazione ipercontrollata, il feticcio di ragazzi media - dipendenti, l´oggetto che nasconde segreti adolescenziali totali e imperscrutabili. «Credo che il cellulare risponda ad un bisogno d´intimità dei giovani che prima si esprimeva in altri modi, è necessario al loro bisogno di relazione, ma in un luogo di studio non va persa l´attenzione, perché così, piaccia o no, funziona ancora la scuola. Sono ragazzi che hanno capacità straordinarie che noi non avevamo, riescono a fare più cose contemporaneamente, ma la scuola richiede ancora un certo tipo d´attenzione, d´isolamento, a cui i ragazzi non sono più abituati». La maggior parte degli studenti dalle medie in su possiede un cellulare, usato con disinvoltura anche dai più piccoli come uno straordinario prolungamento di sé. Gli adulti osservano questa generazione mutante, ora infastiditi, ora rassegnati. «La legge se arriva è già in ritardo, quando la fai si è determinata una situazione di apparente "nuovismo" nella quale qualsiasi divieto rischia di apparire reazionario», dice severo Mario Morcellini, preside della facoltà di Scienze della Comunicazione. Nelle stanze universitarie il rapporto dei giovani con il cellulare è oggetto di tesi di laurea ma la sociologia non basta a spiegare la sconfitta dell´educazione. «Bisognava immaginare tutto questo prima, le scuole ma anche le università andavano schermate. Parlo anche del Senato accademico - dice Morcellini - perché la deriva riguarda anche i professori. Si parla stagionalmente di bullismo ma c´è un bullismo dei cosiddetti normali che fa male al cuore, prima della legge ci dovrebbe essere una famiglia disponibile ad educare, una scuola più autorevole». Perché il cellulare ha avuto questo straordinario successo con i più giovani e non si riesce a regolamentarne l´uso? «Il cellulare scatena la soggettività, con il telefonino i ragazzi dilatano il tempo, aumentano la loro presa sulla realtà, riducono il senso d´insicurezza, il cellulare supera tutti i tempi della comunicazione e li ingloba». C´è una grande sete di comunicazione e il cellulare miracolosamente riassume tutti i media, tutte le tappe della comunicazione, orale, scritta, audiovisiva.
Ma
ora con gli ultimi episodi di riprese choc in aula fatte con il
videotelefonino, molti invocano un argine, un´inversione di rotta per
rieducare una generazione superprotetta ma labile alle regole. «Per i
ragazzi il cellulare è un´articolazione del braccio, una protesi, ma
in classe è un enorme disturbo che crea disagio all´insegnante che non
ha mezzi per opporsi», dice Sofia Boselli, insegnante, presidente del
Cidi. «La scuola è il luogo delle regole per eccellenza ma non ci sono
più strumenti per far applicare le regole. Poi si colpevolizzano gli
insegnanti ma bisognerebbe vedere che ragazzi entrano in classe oggi
per capire cosa sta succedendo». Bisognerebbe ricostituire un clima di
fiducia, recuperare il mandato sociale che non esiste più. «Se la
scuola avesse mantenuto un atteggiamento fermo non sarebbe a questo
punto, potevano prendere un´iniziativa grazie all´autonomia di cui
godono gli istituti ma non l´hanno fatto, ora bisogna spiegare perché
il cellulare va tenuto spento in classe, per molti non è intuitivo»,
dice Benedetto Vertecchi, pedagogo. «Una legge è positiva se
contribuisce a invertire questa accettazione rassegnata».
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