Blair, l’illusione della meritocrazia.
Marcello Sorgi, da
La Stampa del
19/2/2007
Tra poche settimane o pochi mesi, quando, uscito
di scena Blair, si potrà fare un bilancio compiuto del blairismo, da
cui trarre lezioni per le moderne sinistre europee, in cima alla lista
delle cose che non hanno funzionato occorrerà mettere la meritocrazia,
un fattore fondante del manifesto del Nuovo Labour (presto anche di
quello del nascituro partito democratico italiano). E un elemento, tra
i più evidenti, di discontinuità dalle classiche impostazioni
socialiste o socialdemocratiche.
Dieci anni fa, quando Blair esordì con il suo slogan «Education,
education, education», un libro si era imposto alla sua attenzione.
Era il saggio sulla società classista di Andrew Adonis e Stephen
Pollard «A class act». Per questo studio, che tendeva a dimostrare
come, dalla monarchia alle forze armate, dalla sanità all'assistenza,
il sistema inglese fosse istituzionalmente votato alla conservazione,
e come quello scolastico, nella sua frammentazione, avesse contribuito
a consolidare la stratificazione delle classi e a rallentare la
mobilità sociale, Adonis fu a un passo dal diventare ministro
dell'Istruzione. «Il tempo delle élites è finito, è il momento della
meritocrazia», annunciò Blair, orgoglioso, aggiungendo: «Il vecchio
establishment sta per essere rimpiazzato da uno nuovo, più largo e
meritocratico, proveniente dalla middle class».
Per Blair, il perno della selezione classista stava nel programma di
borse di studio garantito ai ragazzi di undici-dodici anni, che,
usciti dalla scuole primarie, potevano accedere alle secondarie
iscrivendosi a spese dello Stato anche negli istituti privati, veri
luoghi di eccellenza del sistema scolastico inglese. La grande massa
degli studenti subiva così, al primo scalino, una drastica
decurtazione; e per di più la scelta dei migliori e la successiva
preparazione delle élites sfuggivano sostanzialmente al controllo
dello Stato, che tuttavia continuava in gran parte a doverne
sopportare i costi.
Di qui, il primo passo del governo blairiano verso una scuola più
aperta fu l'abolizione delle borse di studio e lo spostamento dei
fondi che le finanziavano ad asili e a scuole primarie. Fermi restando
il rigido sistema di selezione dei migliori («Questa scuola non è per
tutti» è la prima cosa che si sente dire un ragazzo che si presenti
per un colloquio di ammissione), e il patto esplicito del diritto allo
studio in cambio del dovere di studiare ed essere bravi, era una
chiara svolta in favore delle classi meno abbienti e delle aree
marginali della società, quelle per cui l'esperienza scolastica dei
figli si fermava spesso dopo pochi anni, per restare incompiuta. Ma
oggi, dopo dieci anni di esperienza, è esattamente questa logica,
costruita per diffondere in tutti gli strati della società ambizioni
positive e desiderio di crescere, ad essere messa in discussione.
Qualche giorno fa, in un'intervista a «Today programme», proprio Blair
ha dovuto ammettere a denti stretti che in campo scolastico c'è ancora
larga distanza tra progetti e realtà, e molto da fare per arrivare a
una società più egualitaria.
Gli ultimi dati, d'altra parte, sono impietosi: a fronte di un
incremento del budget per l'istruzione del 52 per cento, la crescita
del sistema nel suo insieme e della competitività delle scuole sono
ancora molto basse. La differenza tra scuole statali delle aree
metropolitane e delle zone più povere del Paese si è accentuata. La
percentuale di scuole al di sotto degli standard minimi è salita in
Inghilterra al 17 per cento, di cui 25 per cento nelle primarie, per
inciso quelle in cui s'è investito di più. S'è accelerata, di
conseguenza, la corsa delle famiglie più abbienti alle scuole private
(13 per cento del totale, con un costo medio per alunno di 10.400
sterline, più di 15.000 euro all'anno, e oltre 11 per cento di
incremento nel decennio blairiano); ed è diventata quasi una rissa la
lotta delle altre famiglie per cercare di iscrivere i propri figli
nelle poche scuole statali che funzionano. Chi fa le scuole private,
inoltre (ed è un'altra novità), tende a proseguire nelle università
private. Così che Oxford e Cambridge, additate dal Blair degli inizi
come esempi di riserve per studenti privilegiati, oggi sono meno
frequentate in assoluto, e paradossalmente più scelte da giovani
formati nel sistema statale, che non da quelli provenienti dal
privato.
Ancora: il numero di studenti che aveva concluso bene la scuola
dell'obbligo era passato dal 26 al 45 per cento, diciannove punti,
negli ultimi nove anni dei governi conservatori Thatcher e Major. Ed è
salito di tredici punti, dal 45 al 58 per cento, con Blair. Non ha
funzionato il potenziamento di inglese e matematica, per favorire una
maggiore integrazione dei figli degli immigrati: le difficoltà di
apprendimento si sono rivelate due volte più forti tra gli alunni meno
abbienti, ammessi ai pasti gratuiti per ragioni di reddito. Anche il
computer, inserito come materia di studio fin dall'inizio dei corsi,
stenta ad affermarsi. La domanda che gli studenti annotano più
frequentemente sul video è: «Come faccio a trovare cinquanta milioni
di sterline da far fuori?». Infine, l'Inghilterra è solo ventitreesima
nella classifica mondiale per ragazzi diplomati, dopo, tra gli altri,
Giappone, Grecia, Irlanda, Nuova Zelanda e Ungheria.
Naturalmente, come sempre nelle statistiche, ci sono dati che possono
essere letti anche in positivo: basti pensare alla scuola dell'obbligo
e alla crescita degli alunni provenienti da scuole pubbliche approdati
nel distretto «Oxbridge», come vengono chiamati con un acronimo i due
più famosi atenei inglesi di Oxford e Cambridge. Ma è inutile negarlo:
l'insieme dei risultati di una politica, che Blair pensava avesse
bisogno di due legislature per dispiegarsi, ed è arrivata alla terza,
sono ben lungi dalle attese. E possono diventare assai deludenti, se
si considera che nello stesso periodo la repressione dei ragazzi che
sfuggono alla scuola dell'obbligo, o la frequentano male e senza
profitto, s'è molto inasprita: dopo tre violazioni consecutive delle
misure contenute nei provvedimenti per «comportamento antisociale», un
ragazzo di dieci anni può passare direttamente dall’aula scolastica
alla cella di un carcere.
Né vale dire, con gli occhi all'Italia, dove le politiche scolastiche
ormai, dopo un trentennio di stagnazione, cambiano ogni legislatura,
che in un paese in cui non c'è stata la rivoluzione studentesca del
'68, almeno il blairismo ha provato a cambiare. La sensazione è che
più che dalle riforme scolastiche pensate dai «professorini» dei «think-tank»
blairiani, la vera spinta alla mobilità sociale della Vecchia
Inghilterra sia venuta prima, dalla durissima ristrutturazione
economica e sindacale imposta dalla Thatcher nei suoi sedici anni.
Quella politica della «Lady di ferro», guardata con sospetto in
Europa, quando non considerata con disprezzo «macelleria sociale», ha
invece prodotto una scossa vitale in tutte le componenti della società
inglese. E in questo senso, si scoprirà dopo, Blair e i suoi, dieci
anni fa, hanno trovato la strada spianata.