Ma il prof non può fare (più di tanto) il Benigni.
Paolo Mazzocchini da
DocentINclasse, 5/12/2007
Ad ogni esibizione televisiva di Benigni ritorna
sui giornali (come nell'articolo di oggi di De Luna sotto riportato)
l'invito ai prof di spendersi di più in classe sul piano della
spettacolarità, del coinvolgimento emotivo degli studenti, della
performance retorico-artistica. Riconosco che questa dote (quella che
i retori antichi chiamavano actio, da cui actor = 'attore') se
posseduta da un insegnante è un potente mezzo di 'trascinamento' della
volontà e dell'attenzione. Ma bisogna anche essere più realisti,
tenendo presente che purtroppo il nostro mestiere è anche
necessariamente routine , nel senso di ingrato ma irrinunciabile
training quotidiana a base di esercizi e (ahimé) ripetizioni di
nozioni e concetti. Insomma oltre che attore e incantatore (nel senso
etimologico dei due termini), l'insegnante deve anche ed anzitutto
essere allenatore e preparatore atletico della mente dei suoi
studenti. Deve contemperare la psicagogia fascinatoria della lectura
Dantis con il faticoso (perché meticoloso) lavorio di esegesi puntuale
del testo e di comprensione filologicamente precisa del linguaggio
dantesco. Insomma: mica poco, per 1.300 euro al mese, se ci si
aggiunge che, per di più, all'insegnante si richiede di fare anche lo
psicologo, l'assistente sociale e altro ancora. Per fare (benissimo)
solo l'attore Benigni guadagna invece almeno cento volte di più in una
sera...
Ecco l'articolo di Giovanni De Luna:
« C’è una crisi educativa che ha ridimensionato il ruolo della scuola
nella trasmissione del sapere e che nasce direttamente dalle
trasformazioni culturali del nostro presente.
Il baricentro della cultura si è spostato verso l’immagine e nuove
forme di oralità, dando avvio a un mutamento profondo nel modo in cui
gli studenti si avvicinano alle materie scolastiche. È una crisi che
non si affronta mettendo mano in continuazione agli ordinamenti e ai
curricula ma puntando a una complessiva riqualificazione del ruolo
dell’insegnante. Dalle aule rimbalzano anedotti significativi: il
professore di storia che entra in classe, apre il manuale, legge per
un’ora e se ne va. A quel punto la partita è persa. L’unica storia che
si impara è quella della tv o del cinema. L’unico sapere a cui ci si
avvicina è quello appiattito sulla semplificazione immediata, sul
rifiuto della complessità, su una sorta di approccio «usa e getta»
alla cultura che produce un senso comune affollato di stereotipi, per
una conoscenza senza spessore, facile da consumare e dimenticare.
Un insegnante che voglia essere un educatore sa di dover «competere»,
è consapevole di dover scendere in una grande arena dove si combatte
per una posta in gioco che è proprio l’efficacia nella trasmissione
del sapere. I concorrenti con cui si misura sono molto potenti: il 79%
dei minori usa Internet per studiare; è più agevole da consultare,
semplifica l’elaborazione attraverso il copia e incolla, è un mondo
più familiare di quello ostico della lettura e del libro. A questa
presenza straripante della rete la scuola italiana ha dato risposte
deboli e incerte, aumentando la dotazione di tecnologia nelle scuole e
incrementando il training degli insegnanti per innalzarne le
competenze informatiche di base, con un equivoco di fondo costituito
dal fatto di ritenere che il proprio compito fosse quello di insegnare
l’uso degli strumenti. In realtà, i ragazzi arrivano a scuola già in
confidenza con le nuove tecnologie, ne sanno più degli insegnanti. Non
solo; oggi scattare una foto o girare un video e pubblicarlo in rete è
un’operazione che non richiede particolari competenze; questo comporta
il passaggio dei ragazzi da utenti a produttori e un’ulteriore
frattura con le vecchie pratiche educative. La ricerca recente sui
consumi culturali degli adolescenti offre dati interessanti: la tv è
in netto calo, vanno affermandosi i media digitali (dall’i-pod al
telefono cellulare) e, sebbene Internet sia ormai lo spazio abituale
per la ricerca delle informazioni e la comunicazione, si legge di più
e sono in ascesa le attività fuori casa: cinema, teatro, concerti
live, tempo libero all’aperto.
Allora in crisi non sono tanto i saperi scolastici, quanto la capacità
di trasmetterli. Per farlo non bisogna solo padroneggiare la materia
ma anche saperla raccontare. Tra gli anedotti che fioriscono nei
corridoi, uno si riferisce alla professoressa che si commuove quando
spiega Leopardi; gli allievi ne ridono, ma nessuno dimentica quelle
lezioni. Si scopre che le risorse per vincere la sfida sono proprio
nell’arma più tradizionale, nella lezione in classe: i professori di
fronte agli studenti, in un’aula; è un momento in cui la trasmissione
del sapere avviene fisicamente con allievi che ti guardano, ti
scrutano, ti ascoltano. Partire dalla riqualificazione degli
insegnanti vuol dire anche sollecitare una nuova consapevolezza della
centralità del proprio corpo, di come i ragazzi facciano dipendere
empatia e ascolto anche dalla postura, dalla voce, dai gesti di chi
«fa» la lezione. Bisogna essere un po’ attori? Certo, visto che ci si
mette in scena tutti i giorni. Ma soprattutto bisogna riscoprire le
passioni e le motivazioni di un ruolo schiacciato dalla burocrazia e
dalla penuria delle risorse economiche per finanziare i corsi di
aggiornamento. » (G. De Luna, La Stampa 05-12-07)