Nel Nord est si moltiplicano anche nelle scuole
fra i giovani cresce la rivolta Francesco Jori, la Repubblica, 25/4/2007
Di anni ne sono passati già nove. Ma per Maia, 19 anni, filippina, oggi operaia in una fabbrica del Vicentino, è come se fossero giorni. Perché se lo ricorda ancora nei dettagli, il suo calvario a scuola, quando a 10 anni di età era arrivata in Italia: «La prima settimana, benissimo, tutti gentili. Ma subito dopo è diventato un incubo: mi prendevano in giro, non riuscivo a inserirmi. Mi sentivo uno schifo, una deficiente, ero impaurita. Piangevo ogni giorno, così a un certo punto ho cambiato scuola». Non è stata meno dura per chi, pur figlio di immigrati, è nato in Italia. Ne sa qualcosa Emma, 16 anni, nigeriana, che vive a Rovigo e studia da ragioniera: «Nelle prime due classi delle elementari, tutto bene. Ma dalla terza in poi cominciavano a girare le solite battutine. E quando litigavo con un compagno c'era sempre qualcuno che mi diceva: negra!». Due anagrafi diverse, una stessa esperienza: nel Veneto con 54mila ragazzi stranieri nelle scuole (erano 10mila appena sei anni fa) il malessere delle "seconde generazioni" è un sommerso con cui si comincia a fare i conti. Soprattutto perché si tratta di «una generazione sospesa, nel senso che non appartiene né a questo mondo né a quello di origine», fa presente Samira Chabib, mediatrice interculturale che lavora a Verona. E se questa è la lettura di un'immigrata, ancora più estrema è quella di un'italiana che con gli immigrati lavora da tempo, Maria Piovano, educatrice dell'Ulss di Treviso: «Questi ragazzi non sono "seconde generazioni", sono profughi. Non hanno scelto loro di andar via, sono stati portati via in un'età in cui il gruppo di appartenenza del loro quartiere è fondamentale. Sono stati sradicati completamente, e oggi si ritrovano a diventare dei "poveri deficienti" messi in un angolino perché non riescono a capire». Come è successo a tre ragazzi del Bangladesh tra i 15 e i 16 anni, in una terza media di un paesino del Vicentino. Racconta un operatore: «Se ne stavano seduti composti e silenziosi in prima fila. Erano arrivati da un mese, la scuola non aveva modo di curare il loro italiano. Così passavano le mattinate silenziosi, in classe, senza capire nulla. E' questa l'integrazione che vogliamo?». I primi a sottolineare la difficoltà sono i docenti. Spiega Annalia Pellegrini, maestra in una scuola elementare di Belluno e responsabile del Centro Territoriale di Integrazione: «Per la maggior parte degli insegnanti oggi avere un ragazzino straniero in aula è un problema, perché mette in discussione tutto l'assetto della classe». Ma non è un disagio limitato ai banchi. I ragazzi di seconda generazione che stanno per inserirsi nel mondo del lavoro hanno dovuto accantonare in fretta i sogni. Come Ernest, 23 anni, del Burkina Faso, che a Vicenza sta finendo l'istituto tecnico industriale: Volevo andare all'università e fare il medico, ma ho tanti fratelli e il papà deve occuparsi di tutti; penso che dovrò sacrificarmi per gli altri». Ed è dura perfino dentro le mura di casa, perché il salto tra generazioni è quasi sempre traumatico. Racconta Abdi, nigeriano che studia da perito informatico a Venezia, arrivato in Italia a 4 anni di età: «Mio padre non potrà mai considerarmi italiano. Il mio comportarmi da italiano da lui viene visto in modo strano, perché comunque per lui esiste il modo di vivere nigeriano; e il resto è stramberia, nel senso che non ti comporti come dovresti». Inquadra il problema Kinè, 17 anni, ragazza senegalese che vive a Vicenza: «Alle prime generazioni di immigrati interessava solo riuscire economicamente. Noi delle seconde abbiamo visto qualcosa di più, e questo comporta un maggior bisogno di integrarsi».
Che ne sarà della
"generazione sospesa", se le verrà negato? |