Assunti e licenziati nello stesso giorno: noi, tappabuchi a basso costo

Scuola, il popolo dei precari a vita.

Il ministro Fioroni come i predecessori ha preconizzato il "tutti dentro" nel 2010
Su quasi un terzo delle cattedre nazionali siede un professore
che non sa quando tornerà a insegnare
Il problema più profondo è di autostima:
"Cosa vi aspettate se non abbiamo riconoscimento sociale?"
Lia ha nel cassetto ben 115 contratti di assunzione.
Ma anche 114 lettere di licenziamento

Michele Smargiassi, la Repubblica, 2/4/2007

 

DAL NOSTRO INVIATO
MODENA - Diventare insegnante? È la cosa più facile del mondo: Lia Pacchioni c'è riuscita un centinaio di volte. Ha nel cassetto 115 contratti d'assunzione. E 114 lettere di licenziamento. Alcune hanno la stessa data delle nomine: «Assunta la mattina, licenziata la sera». Fra un paio di mesi, alla fine dell'anno scolastico, il conto tornerà pari, perché come per i suoi 296 mila colleghi insegnanti precari, per lei ferie e disoccupazione sono la stessa cosa. E tutto questo da 34 dei suoi 53 anni. «Cominciai nel '73 rimpiazzando maestre ammalate mentre facevo l'università. Al sindacato dicono che potrei essere la prima precaria pensionata dopo un'intera carriera da supplente». Proprio ora che la meta è vicina: Lia è quarta in graduatoria. Ma per entrare in ruolo prima di andare a riposo, nei prossimi quattro anni dovrebbero liberarsi nella sua provincia, che è Modena, e nella sua materia, che è biologia, ben otto posti. Quasi impossibile.

"La supplente va in pensione", bel titolo da commedia all'italiana. È davvero una pochade la condizione dei "prof-spezzatino", nomadi delle classi, collezionisti di punteggi, vincitori di concorsi a cattedre senza cattedre, pionieri del precariato fin da quando la parola "flessibilità" non esisteva nel vocabolario del mercato del lavoro italico. Su quasi un terzo delle cattedre nazionali siede un professore che non sa se, quando e dove tornerà a insegnare tra pochi mesi o tra pochi giorni, ma soprattutto non sa quando finirà la giostra dei reincarichi, quando s'arresterà il ciclo delle reincarnazioni supplenti e splenderà il nirvana dell'"immissione in ruolo". Si può insegnare bene in queste condizioni? «Ma sì che si può. Figlia di insegnanti, amo la scuola, altrimenti non avrei resistito. Bisogna adattarsi». Lia s'è adattata, «diciamo assuefatta». Il suo curriculum di «precaria storica, anzi preistorica» riempie tre pagine fitte: tutti gli ordini di scuola, venti istituti diversi, una dozzina di materie d'insegnamento, supplenze di poche ore e incarichi annuali, questi per fortuna più frequenti col passar del tempo, ma è sempre dura per una vedova con due figlie («che non faranno le insegnanti») tirare avanti con 1250 euro per dieci mesi all'anno. Ma Lia, minuta nel fisico, è un carrarmato morale: «Devi mannenerti forte e giovane quando sei precaria: è spiacevole sentir dire dai ragazzi "guarda quella, così vecchia e ancora supplente". Meglio di una crema antirughe. Però costa di più».

«Una mostruosità storica, una malattia cronica, un'anomalia italiana», sbotta Enrico Panini, segretario nazionale Cgil-scuola, «la ‘bolla precaria' gonfiata dal boom della scuola di massa». Nel 1970 i precari addirittura superarono i professori di ruolo. «Erano il serbatoio e lo spasso della Dc». Ma la Dc non c'è più, i precari della scuola invece sì, e tuttora vivono nel mito palingenetico dell'"assorbimento definitivo" promesso da ogni ministro dell'Istruzione, smentito ogni volta dal contrordine del ministro delle finanze di turno. «Questo è l'ultimo aggiornamento delle graduatorie», ha promesso anche il ministro Fioroni annunciando il «tutti dentro» per il 2010. Non ci crede nessuno. Nell'immaginario supplente il dio-punteggio è invulnerabile, esige crudi sacrifici ma elargisce con parsimonia i suoi favori. Anno di supplenza, dodici punti. Abilitazione, tre punti. Corso d'aggiornamento, un punto. Trecentomila pedine dentro un gigantesco gioco dell'oca la cui meta è un contratto a tempo indeterminato, ma il cui percorso è infestato di trabocchetti, "zero cattedre, fermo un giro", "perso concorso, riparti dal via", "regole cambiate, cedi venti punti". Per avanzare in graduatoria non si tira il dado. Si paga. «Seicento euro al punto, più o meno», calcola Lia, appena tornata dall'esame finale di un corso universitario a pagamento a Ravenna, «ti mandano a casa qualche libro, un questionario, e con un esame porti a casa il tuo punticino da aggiungere alla raccolta», punti in cambio di acquisti, «come i punti della coop». «Mai letto uno solo di quei libri», confessa Roberto D'Alessandro, precario da 19 anni a Bari, «lo sanno tutti che i punti si comprano, è il pizzo da pagare. Badi: non per vincere la gara, solo per non farsi sorpassare». È un gran premio dove il traguardo non arriva mai, ma non bisogna farsi doppiare. «Io non ricordo quanti punti ho», conferma Lia, «ma so benissimo quanti mi separano dalle colleghe dietro e da quelle davanti a me. Se m'iscrivo a un corso per avanzare un po', a loro non lo dico, sennò s'iscrivono anche loro e tutte paghiamo per restare allo stesso posto».

Galoppare per restare fermi al palo. Scuola dei paradossi, quella dei prof con la valigia. Ma la fatica è vera. Elena abita vicino a Napoli e insegna ad Arezzo, 900 chilometri di pendolariato settimanale per 1200 euro che volano via in affitto e viaggi: «Non ci credo più alla favola della fine del precariato. Siamo eterni abili ma non arruolati. Tappabuchi low-cost, badanti di studenti. Quale progetto didattico costruisci se non sai dove sarai tra due mesi?». Il progetto è: aver lavoro anche domani. Mantenere la posizione in graduatoria spesso non basta. Chi insegna materie con poco turn-over, come Alessandro Tricomi, docente di musica ad Arezzo, devono procacciarsi da sé la clientela: «Giro le scuole medie a fare concertini, sperando che i genitori iscrivano i figli al mio liceo, così avrò una classe anche l'anno prossimo». Per il popolo delle supplenze brevi l'umiliazione è pane quotidiano: giornate intere appese alla telefonata di un preside, magari accampati al bar per essere pronti a scattare, vero caporalato intellettuale. E dietro la porta della classe, poi, ecco altre più sottili umiliazioni: «Sei un prof a sovranità limitata, il titolare ti diffida dal rovinargli la classe, i ragazzi capiscono che conti poco e ne approfittano». Per Lia l'umiliazione arrivò durante uno dei suoi due concorsi abilitanti, quando il presidente della commissione, sbirciando la sua carta d'identità, esplose: «È uno scandalo, non possiamo abilitare insegnanti così vecchi!». «Ma quando abbiamo iniziato eravamo giovani», s'inalbera Gianfranco Pignatelli, 27 anni di precariato, presidente di un'associazione di insegnanti instabili, il Cip. Per Lia, giustamente, «l'esperienza conta più dello stato di servizio». Ma se riuscirà ad agguantare la cattedra di ruolo, dopo quasi quarant'anni di insegnamento, dovrà sottoporsi all'"anno di prova". Esasperata, Monica, "supplente squillo" di Napoli, s'è sfogata in una lettera aperta al ministro: «Io sono insegnante, non devo elemosinare quello che sono già».

Il problema in fondo è proprio di identità, di autostima. «Dignità negata», «gogna», gridano in mille blog i precari eternizzati. Quarant'anni fa a Parigi l'Unesco stabilì, nella storica "Raccomandazione sullo status dei docenti", che «la stabilità professionale e la sicurezza dell'impiego sono indispensabili nell'interesse della scuola». Tanti saluti. Pignatelli: «Precari lavorativi noi, precari esistenziali gli studenti, la miscela è esplosiva». L'anno scorso un rapporto dell'Ocse bocciò l'efficacia e i risultati della scuola italiana. «Ma cosa si aspettano», riprende Lia, «da un paese che scarica sui professori il massimo delle responsabilità con il minimo del riconoscimento sociale? Qualsiasi problema abbia la società, droga, violenza, incidenti stradali, è sempre ‘colpa della scuola'. Ma la scuola è fatta di insegnanti maltrattati». Sottopaga a parte, la condizione docente italiana è un groviglio di opposti. Reclutata in mille modi diversi, concorsi, sanatorie, "doppio canale", continue infornate ope legis, 24 in sessant'anni, strappate a furor di scioperi e blocchi degli scrutini. Classe disomogenea per formazione e competenza: è impressionante scoprire che ancora oggi non solo il 46% del totale, ma perfino il 22% dei docenti delle scuole superiori non è laureato. Lia, rassegnata: «Così la Repubblica italiana ha massacrato il suo unico vero intellettuale di massa. Non ci vuole nemmeno fra i piedi. Io starei volentieri a scuola a correggere i compiti, a ricevere i ragazzi, a programmare attività, ma dove? Ha mai visto le sale insegnanti? Nella mia scuola non c'è neppure il bagno per i docenti». Un mese fa il ministero le ha recapitato un assegno. Arretrati, per complessivi euro 0,43. «Non lo incasso, lo incornicio. È bello sapere che lassù qualcuno ti pensa».

(4. continua)