Parla l’informatico padovano che collabora con i fondatori di Google.

«Per l’Università il merito non conta».

Marchiori: in Italia nessuna differenza tra un mediocre e chi lavora, inventa, produce
Insegnavo a Venezia ma ho scelto l’ateneo di Padova
perché dopo sei anni ancora non avevo la cattedra Mi sentivo preso in giro.

Alessandra Carini, da Il Mattino di Padova del 29/4/2007

 

PADOVA. «Vuole parlare dell’Università italiana? Davvero? E va bene, mangiamoci un panino a mezzogiorno». Tutto si può dire del mestrino Massimo Marchiori, docente di informatica all’Università di Padova, tranne che sia un accademico con la puzza sotto il naso. Eppure ne avrebbe ben donde. Laurea in matematica, poi negli Usa a insegnare al prestigioso Mit con Tim Berners Lee, l’inventore del web. Ha dato l’idea di base di Google a Larry Page, uno dei due fondatori del motore di ricerca. Chi meglio di lui può dire quali sono le carenze dell’Università italiana e nei suoi rapporti con il mondo industriale? L’ultima volta che lo avevamo incontrato, quando vinse il prestigioso TR100 Award,, insegnava a Ca’ Foscari e al Mit. Oggi ha lasciato Mestre per insegnare a Padova.
 

Perché?

«Mah, dopo sei anni non avevo ancora un posto da professore. Solo promesse, e mi sono sentito un po’ preso in giro. Padova mi ha offerto una cattedra e sono andato via».

Sembra strano, per uno che ha tanti riconoscimenti.

«Sì, ma l’università italiana è fatta così: il fatto che uno meriti, e valga, non significa necessariamente che faccia carriera, anzi. A Padova del resto mi hanno offerto una cattedra soprattutto perché mi conoscevano dai tempi che studiavo lì».

La sua storia sembra una di quelle dei tanti cervelli in fuga.

«Non voglio fare polemiche. Ma certo è che quando mi sono laureato, in Italia non riuscivo neanche a vincere un posto di ricercatore, mentre l’Olanda mi ha chiamato ben prima che finissi la tesi, mi ha offerto un contratto per entrare in un centro di ricerca e sono partito».

E cosa è successo poi?

«Ho mandato il mio curriculum al Mit e, anche se lì non conoscevo nessuno, mi hanno chiamato per condurre ricerche nel campo dei processori. Un giorno chiacchieravo con quelli che lavoravano sul web: al Mit non si è chiusi a compartimenti stagni o dipartimenti chiusi. Ci sono luoghi fatti apposta per incontrarsi, scambiare idee ed esperienze, sondare possibili terreni di ricerca comuni. Uno dei ricercatori web mi ha detto: hai delle idee veramente interessanti, perché non vieni a lavorare con noi? Detto fatto: in una settimana mi hanno chiamato a colloquio tutti i capi. L’ultimo, il mitico Tim Berners Lee alla fine mi ha detto: guarda, in questo momento non abbiamo posti disponibili, ma per te, ne creo uno, ora. Benvenuto».

Una bella soddisfazione.

«Sì, ma se l’immagina una cosa del genere nell’Università italiana? Un prestigioso accademico, anzi il numero uno nel mondo del Web, che, nel centro di ricerca numero uno al mondo, dà all’istante un posto a uno mai visto né conosciuto, solo sulla base di quello che ritiene essere un merito o un valore?»

Ma perché è tornato in Italia?

«Perché mi piace vivere qui, è la mia terra. E poi mi hanno consentito di lavorare tra Italia e Stati Uniti».

Pentito?

«Non ancora così tanto da farmi cambiar aria, ma un po’ sì, visto che il sistema sembra fatto apposta per scoraggiare e frustrare. Comunque, stiamo parlando di me o dell’Università?»

Lei ha visto le polemiche di questi mesi sull’Università, la ricerca, il battibecco tra il presidente degli industriali, Andrea Riello e i rettori. Che cosa ne pensa?

«Credo che, nella sostanza, anche se magari nella forma ha un po’ calcato la mano, Riello abbia ragione e che se si vuole cambiare non bastano riforme di piccolo cabotaggio, ma un ripensamento del sistema dalle fondamenta».

In che senso?

«Nell’Università italiana non c’è vero criterio di merito: che tu valga molto o valga poco, il tuo stipendio è dato dall’anzianità. Se fai ricerca o non fai ricerca idem. Non c’è alcun incentivo che premi chi fa o chi realizza di più. A tutti si dà lo stesso salario e alle facoltà fondi distribuiti a pioggia. Non è così che si può fare ricerca o andare a caccia di rapporti con l’industria».

Qualche criterio di distribuzione meritocratica il ministero dice di averlo imposto.

«La distribuzione è generica, non alle persone. E non serve a molto, perché non sposta molti soldi. Inoltre i criteri generalisti non hanno molto senso, i campi di ricerca delle varie facoltà hanno esigenze e valutazioni molto diverse tra loro. Morale: per una Università, assumere un genio o un mediocre praticamente non fa differenza».

Ma negli altri Paesi che cosa accade?

«Ah, non è di certo così. Negli Stati Uniti parte dei fondi delle università viene da quello che si chiama mercato: cioè dai privati, magari da aziende o imprese che hanno interesse a che si produca qualcosa, un progetto, una ricerca. E tutto il sistema è costruito in una maniera diversa: se vali, se “produci” con il tuo insegnamento buoni studenti, se impianti ricerche importanti, allora fai carriera, ti cercano, ti offrono posti, ti aumentano lo stipendio. Ritengono, insomma, che tu sia prezioso per il sistema educativo e per la società. Qui no. Anzi a volte è esattamente il contrario».

Ma molti dicono che così il sistema educativo finirebbe per essere al servizio dell’industria...

«Dare incentivi non significa essere sottomessi all’industria. Significa premiare i migliori, dare stimoli. Certo, anche il sistema americano ha dei difetti. Ma il sistema italiano è molto peggio».

Perché?

«Perché i migliori, senza stimoli, prima o poi se ne vanno: ed è così, almeno nel mio campo, perché praticamente, e lo dico con la morte nel cuore, quasi tutti i migliori delle giovani generazioni oggi non scelgono l’accademia. Se proprio hanno la passione, restano per un po’ e poi cambiano idea dopo anni di frustrazioni. Chi è che al giorno d’oggi, se sa di valere davvero, aspetta cinque o dieci anni per avere un posto e un salario di 1200 euro e magari stare alla pari con uno che vale poco, e anzi che fa carriera proprio per la sua mediocrità? Questo è davvero ammazzare il sistema educativo, e la ricerca, e lasciare i migliori sul mercato dell’industria».

Dice il rettore di Padova, Ernesto Milanesi: l’università non è né un dottorificio né una scuola tecnica superiore. E la ricerca non può essere fatta per rispondere alla domanda di chi produce bruciatori.

«Vero. Il paradosso è che sia il rettore che Riello hanno ragione, contemporaneamente. Da un lato, occorre certamente dare spazio a una ricerca astratta e staccata dall’industria. E dall’altro, occorre anche dare adeguati incentivi a chi vuole fare ricerca applicata. Tra queste due posizioni, ora siamo allo stallo».

Perché?

«Per i motivi che ho detto prima: i fondi sono pochi, vengono distribuiti a pioggia, e quel poco che c’è viene diviso in maniera uguale tra chi lavora e chi non lavora, tra chi ha risultati e chi non produce proprio, tra un brillante ricercatore con un salario da fame, e un professore che invece non fa ricerca da anni. L’industria i fondi li ha, e i risultati li chiede e, giustamente, li pretende. Ma l’Università deve offrire qualcosa in più, sia all’industria che a chi fa ricerca».

Ahi, torniamo ai «bruciatori»?

«No. Ma qualcuno mi deve dire che cosa può fare un ricercatore con ad esempio fondi di mille, dico mille euro l’anno, senza avere alcuna possibilità di avere macchine all’avanguardia, contrattisti, un budget, anche modesto, per far funzionare un gruppo di ricerca? O i fondi si concentrano su chi fa e lavora puntando a dei risultati, oppure meglio non cominciare neppure. Quanto all’industria bisogna anche smettere di demonizzarla. Tutti e due hanno da guadagnare da un rapporto più stretto».

Ahi, torniamo all’Università come scuola tecnica superiore?

«No. Ci deve essere spazio per la ricerca pura, ma anche per quella applicata. E siccome per la ricerca applicata c’è competizione, bisogna dare gli incentivi adeguati perché i migliori decidano di restare nell’Università, invece di andar via (o, peggio, non entrarci proprio). Se, tanto per dire, faccio un progetto monumentale e dopo anni di duro lavoro scopro come poter arrivare a un Google 2, da un punto di vista accademico, come curriculum, questo vale zero. Se scrivo un articoletto, qualche foglio di carta, su un argomento anche banale, questo invece vale ai fini del curriculum e di una cattedra. Bell’incentivo, vero?»

Non ha mai ricevuto offerte da aziende?

«Come no, a stipendi che in un mese mi farebbero guadagnare quello che prendo ora in un anno. La famosa competizione di cui parlavo prima...».

E perché non accetta?

«Perché mi piace avere campo libero e non limitato dalle singole esigenze. Perché mi piace avviare progetti innovativi di cui possano beneficiare non solo le imprese, non solo il singolo, ma anche il sistema, la società, tutti noi».

Allora ha ragione Milanesi: non si può essere solo considerati dei fornitori di qualcuno.

«In astratto sì, ed è quello che mi ha motivato finora, e come me tanti altri. Poi però l’Università deve dare i mezzi adeguati a chi vale per fare ricerca, altrimenti cosa ci si sta a fare, nell’Università? Ad insegnare e basta? Certa ricerca, quella che magari sul serio può cambiare il mondo, non può essere trattata come un “hobby”, ha invece bisogno di strutture adeguate. Ma con mille euro l’anno, cosa si fa?».