A scuola di follia: la fatica di insegnare.
Uno studio interessante di Lodolo D’Oria sul
disagio psicologico degli insegnanti
di Giorgio Cavadi (SCUOLA INSIEME n° 5/2007
giugno-luglio)
“La categoria professionale degli insegnanti – in controtendenza con gli stereotipi diffusi nell’opinione pubblica – è soggetta ad una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori manuali. A documentarlo sono recenti studi scientifici, che evidenziano tra gli insegnanti un costante aumento della percentuale di accertamenti per idoneità al lavoro a causa di patologie psichiatriche (dal 44.5% del triennio 92-94 al 56.9% del periodo 01-03)”. Pioniere di queste ricerche è Vittorio Lodolo D’Oria, che da anni studia queste patologie e si batte per un corretto approccio, non più solamente burocratico, con le malattie legate alla “fatica d’insegnare”. A lui abbiamo rivolto alcune domande.
Si tratta di una condizione caratterizzata da
affaticamento fisico ed emotivo, atteggiamento distaccato e apatico
nei rapporti interpersonali, sentimento di frustrazione e perdita di
controllo dei propri impulsi. E’ soprattutto appannaggio delle
cosiddette helping profession tra cui sono compresi psicologi,
assistenti sociali, medici, psichiatri e insegnanti. Le relazioni sono
psichicamente usuranti e gli insegnanti ne devono avere con studenti,
loro genitori, colleghi e dirigente scolastico. Si consideri infine
che l’insegnante è sottoposto allo stereotipo dello scansafatiche che
lavora mezza giornata e fa 3 mesi di vacanza l’anno. Ora è considerato
– per giunta – “folle”. Se possiamo definire il burnout una forma di disagio, quando e come il disagio si trasforma in malattia? Dobbiamo innanzitutto chiarire che il burnout appartiene alla psicologia mentre esula dalla sfera delle diagnosi psichiatriche che tendono ad assimilare tale condizione al cosiddetto disturbo dell’adattamento. La questione non è da poco ed appare in tutta la sua gravità se tradotta in numero di pubblicazioni scientifiche. Infatti nella letteratura internazionale vi sono più di 8000 pubblicazioni su riviste psico -sociali che trattano diffusamente il burnout degli insegnati mentre in Italia vi è una sola pubblicazione medico-scientifica (La Medicina del Lavoro n° 5/2004)che pone in diretta correlazione la professione docente col rischio di sviluppare una vera e propria malattia psichiatrica. Sembra quasi che la collettività riconosca all’insegnante di poter arrivare al massimo ad una condizione di “ esaurimento”ma non certo di malattia psichiatrica propriamente detta. Il fenomeno si spiega in maniera assai semplice: l’opinione pubblica ritiene che un lavoro semplice e poco impegnativo come quello dell’insegnante al massimo può generare piccoli contrattempi e qualche insignificante grattacapo. Poiché gli insegnanti in Italia sono quasi un milione, dobbiamo riconoscere che rappresentano un’ampia fetta di opinione pubblica, il che equivale a dire che essi stessi sono “viziati”dai suddetti stereotipi e si vergognano a parlare del proprio disagio. Questa ritrosia ad affrontare a viso aperto il malessere psichico li induce ad isolarsi attuando reazioni di adattamento (chiamate coping dagli psichiatri) negative quali il bere, il fumare, il pasticcarsi. Il passo verso la vera e propria malattia psichiatrica è dunque breve ed è definitivamente sancito dalla perdita della capacità critica e di giudizio. Cosa per la quale scatteranno dei meccanismi di difesa automatici quali l’aggressività o la fuga dagli impegni con conseguenti manie di persecuzione e accuse di mobbing al dirigente scolastico e ai colleghi. L’evidente ricaduta sull’utente è facilmente immaginabile.
Questo è un problema. Finora ci sono solo due studi retrospettivi di osservazione: il mio su Milano (12 anni) e un altro su Torino (7 anni). I risultati sono drammaticamente sovrapponibili e attesta che un insegnate su due che si presenta a visita medica collegiale per l’inabilità al lavoro per motivi di salute è di competenza psichiatrica. Finora ciò non è bastato a suscitare il dovuto allarme ed ho solo ricevuto attestati di stima dalle autorità competenti e dai sindacati: nulla più.
Le ragioni sono molteplici e complesse. Teniamo innanzitutto per buone le ragioni già considerate relative agli stereotipi dell’opinione pubblica, cui si aggiungono una bassa considerazione del mestiere d’insegnante ed il basso salario che ne discende. Annoveriamo inoltre la globalizzazione con studenti di diverse etnie, l’abolizione delle scuole speciali per i portatori di handicap, l’informatizzazione con l’avvento di internet e la comunicazione veloce grazie alla telefonia, la moltiplicazione delle reti televisive con un’ampia offerta etc. Vi sono poi fattori sociali quali l’abbandono dell’ educazione “normativa”che è oggi rimpiazzata da quella “affettiva”. La sostituzione dell’asse genitore-insegnante (con quello genitore-figlio) reso ancora più stretto dalle famiglie che oggi in larga maggioranza hanno il figlio unico già di per sé oggetto di attenzioni e protezioni narcisistiche di mamma e papà. Da ultimo citiamo una categoria di docenti ormai in età avanzata con molti anni di servizio alle spalle, la presenza in cattedra di ex- sessantottini in piena crisi d’identità (oggi si trovano loro dietro alla cattedra); l’arrivo delle nuove generazioni di giovani insegnanti (il caso del taglio alla lingua ne potrebbe essere espressione) che provengono dalla cultura del “ tutto e subito” non certo abituati a sopportare e a sentirsi contraddire. Uno scenario davvero preoccupante, destinato a peggiorare se non ci diamo da fare. Il taglio alla lingua è un primo segnale che non può essere trascurato. Temo però di essere una Cassandra inascoltata e sapevo bene che il mio libro Scuola di follia (ed. Armando) sarebbe stato rispolverato solo di fronte ad un fatto di cronaca nera. Lei giustamente critica l’approccio eminentemente burocratico e meramente sanzionatorio di fronte ai casi di burnout, tuttavia, spesso, determinati provvedimenti vanno anche a vantaggio di docenti che non possono essere più lasciati soli “al fronte”dell’aula; quale invece, dovrebbero essere le modalità e gli strumenti da fornire ai dirigenti scolastici e Direzioni regionali, per non giungere all’estrema risoluzione del licenziamento e comunque ad altre forme di sanzione che non risolvono completamente il problema? Pretendere di risolvere il disagio mentale con delle sanzioni è roba da mentecatti. Gridare al licenziamento di una singola persona come panacea di tutti i mali della scuola mi sembra atto irresponsabile: soprattutto se fatto da un ministro che è per giunta medico. Gli insegnanti sono come una piramide a tre strati 1. L’apice: composto da coloro che sono oramai vittime di una psicopatologia franca. Si dovrà pensare, insieme al mondo medico-scientifico, ad individuarli, agganciarli e curarli, affinché non arrechino danni a se stessi e all’utenza. L’intervento, ad opera di personale specializzato, deve tendere a perseguire la guarigione dell’individuo, con l’obiettivo finale di favorirne il reinserimento lavorativo e sociale. 2. Lo strato intermedio: popolato da coloro che sono in una situazione di burnout. Deve essere messo a punto quello che gli anglosassoni chiamano social support; che si traduce nella creazione di strutture di ascolto, informazione, condivisione, counselling e – all’occorrenza – sostegno psicologico. L’obiettivo delle suddette iniziative consiste nell’evitare all’insegnante in difficoltà quei sentimenti di vergogna ed isolamento, tipici dell’individuo che si trova ad attraversare questa fase transitoria. Intervenire per tempo è fondamentale poiché la situazione, anziché regredire, può evolvere verso la patologia psichiatrica con la perdita delle capacità di critica e giudizio e la conseguente espulsione sociale (spesso scambiata per mobbing dall’interessato).
3. La base: vi si trovano coloro che sono in
buona salute. Ci si deve occupare di preservare la loro condizione che
è potenzialmente a rischio di logoramento psicofisico. Formare gli
insegnanti in modo completo, senza tralasciare di metterli in guardia
sugli effetti usuranti della loro professione, diviene perciò una
tappa cruciale per un’oculata attività di prevenzione da parte dei
dirigenti scolastici. Occorre inoltre abituare i docenti a gestire le
proprie energie, non smarrire nel tempo la capacità di auto-valutare
le proprie condizioni psicofisiche, monitorare sistematicamente lo
stato di salute e soprattutto non scordarsi di fare ricorso a buone
dosi di autoironia durante il lavoro scolastico. Diviene infine
fondamentale un coinvolgimento dei mass-media per cercare quantomeno
di ridurre i dannosi stereotipi sulla professione insegnante e
restituire dignità alla funzione sociale dell’intera categoria. Nel leggere le cronache recenti di docenti travestiti o con biancheria intima a vista, maestre che tagliano la lingua ai propri alunni e filmini porno che hanno come set le aule delle scuole, possiamo dire che il titolo del suo libro del 2005 SCUOLA DI FOLLIA fosse veramente profetico; ma al di là del disagio degli insegnanti quali mutamenti osserva nel rapporto tra scuola e società: insomma che succede? Per parlare di vera e propria profezia bisogna andare molto più indietro negli anni. Io lo feci e restai impietrito quando trovai chi aveva sostanzialmente predetto quanto io stavo osservando. Una monografia di uno studio del lontano 1979 effettuato su 2.000 insegnanti dell’area milanese riportava i risultati della ricerca commissionata all’Università di Pavia dal sindacato scuola della CISL. I dati erano veramente allarmanti: il 30% degli insegnanti intervistati ammetteva di fare ricorso agli psicofarmaci. Si tenga conto che nel 1979 gli psicofarmaci non erano“ maneggevoli”come gli attuali (SSRI) per i numerosi e pesanti effetti collaterali. Inoltre la loro prescrizione era ad appannaggio pressoché esclusivo dei neuropsichiatri, mentre oggi vengono comunemente prescritti dai medici di base. Per far comprendere l’esplosione del fenomeno noto come “medicalizzazione del disagio” basti dire che, rispetto al 1979, i prescrittori sono decuplicati (da circa 6.000 a 60.000) e la vendita degli psicofarmaci è raddoppiata solo negli ultimi 3 anni. Ho riportato tutto nel mio libro-dossier SCUOLA DI FOLLIA inserendo – come ultima pagina del libro – copia di un Decreto Ministeriale del 1998 che affida la formazione degli insegnanti a Scientology. Non c’è che dire, siamo in ottime mani.
Vittorio Lodolo D’Oria medico ematologo ed esperto di comunicazione e marketing in sanità. Dal 1992 membro del Collegio Medico della ASL Città di Milano per il riconoscimento dell’inabilità al lavoro per causa di salute, si occupa del disagio mentale degli insegnanti dal 1998. Tra le sue pubblicazioni che riguardano il Disagio Mentale Professionale degli insegnanti, ricordiamo: “I dirigenti scolastici alle prese con il Disagio Mentale Professionale sul sito www.fondazioneiard.org nella sezione Scuola e Sanità (settembre 2006); “Quale correlazione tra patologia psichiatrica e fenomeno del burnout degli insegnanti”. Difesa sociale n° 4/2002 e Sole 24 Ore Scuola n° 17/2002; Ricerca su “La percezione del burnout nella classe docente: risultati della ricerca nazionale su 1.252 insegnanti” (Fondazione IARD, settembre 2003); “Immagine e salute degli insegnanti in Italia: situazioni problemi e proposte” contenuto nel rapporto OCSE 2002-2004 “Attracting, developing and retaining effective teachers”. Nel 2005 ha pubblicato per i tipi di Armando, SCUOLA DI FOLLIA, un libro-dossier che affronta in maniera sistematica la questione del disagio mentale dei docenti e la modalità di risposta delle istituzioni nei confronti di questo fenomeno.
Vittorio Lodolo D’Oria può essere contattato
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