Leggendo Magris I doni avvelenati della "scuola di massa". Luciano Canfora Il Corriere della Sera del 6 agosto 2007
Se siamo ridotti a proclamare solennemente ciò
che è appena ovvio, vuol dire che il guasto è molto profondo, forse
irrimediabile. Qualche mese fa, «adeguatamente sdegnato», come egli
stesso direbbe, Galli della Loggia riferì, in un «fondo» di questo
giornale, l' allucinante dialogo, svoltosi in classe, tra uno studente
e la sua insegnante intorno alla opportunità, per lei, di scegliere,
come mestiere più redditizio dell' insegnamento, quello della
prostituzione. Ieri Claudio Magris rievocava, ancora su questo
giornale, gli episodi belluini che si verificano sovente nelle nostre
scuole tra atti di «bullismo» e gesta da «branco», e ne deplorava la
sostanziale impunità, pur riconoscendo che la situazione è pur sempre
migliore di quella americana visto che nella madrepatria del «mondo
libero» studenti regolarmente armati di pistole possono falcidiare
colleghi e insegnanti. Non è un paragone consolatorio come quello
attribuito a Gioachino Rossini («quando incontro uno spagnolo lo
abbraccio, perché mi aiuta a convincermi che non siamo gli ultimi»),
ma serve anche a stabilire differenze e proporzioni e, purtroppo, a
rimirare quale potrebbe essere il nostro futuro quando avremo
finalmente raggiunto l' ineffabile modello. Il crollo della
istituzione scolastica, particolarmente in Italia, è il frutto di un
processo antico, che ha molti padri. All' origine si potrebbe porre la
cialtroneria di epoca fascista, quando primamente sorse il malcostume
di trasformare, durante l' orario scolastico e a detrimento del lavoro
scolastico, gli studenti in manifestanti politici e marciatori da
città. Allora, per celebrare le «poderose», come topicamente venivano
aggettivate le avanzate e le presunte vittorie delle nostre truppe in
Abissinia o in Ispagna o altrove; nel dopoguerra per rivendicare «l'
italianità di Trieste»; nel 1956 per deprecare l' invasione dell'
Ungheria; dal 1968 in avanti per attuare il cosiddetto «abbattimento
della scuola di classe» sotto regia demagogico-sindacale con avallo,
in epilogo, dei Sullo e dei Misasi. Da allora in poi ogni pretesto,
anche il più idiota, serve a paralizzare lo svolgimento del lavoro e
dei programmi, tutti gli anni, fino alla fine dell' anno. In questo
modo, sin da quando mette piede nella sua aula, lo scolaro rapidamente
intuisce che disciplina è parola vuota, che se ne può fare strame e
che nessuna autorità scolastica interverrà a difenderla. Tutti sanno
che l' «abbattimento della scuola di classe» si è risolto nell'
abbattimento della scuola e nella progressiva creazione (anche nell'
ambito universitario) di altre strutture poste «al riparo», ben
distinte dalla rantolante «scuola di massa». È stato elargito un dono
avvelenato e mortale alle classi storicamente escluse dalla cultura:
dono illusorio di un prodotto avariato. Chi legittimamente agognava ad
un nuovo ordine, avrebbe potuto, in assenza della palingenesi troppo
fatuamente prospettata, rileggersi la riflessione di Antonio Gramsci
sulla Disciplina nel Quaderno 14 (§ 48): «La disciplina non annulla la
personalità, ma solo limita l' arbitrio e la impulsività
irresponsabile, per non parlare della fatua vanità di emergere»; «la
disciplina è un elemento necessario di ordine democratico, di
libertà». «La libertà - diceva Robespierre e ripeteva Ugo Foscolo - ha
la sua regola nella giustizia». Principio che, com' è ovvio, non vale
unicamente negli ordinamenti politici. Se non sarà ricostruita ab imis,
la nostra sventurata scuola finirà affossata, stretta dalla tenaglia
di demagogia e pedagogia. E allora tutto questo nostro discettare non
sarà stato, per dirla col Manzoni, che una «dotta disputa, una
graziosa gara di ingegni». |