«L'Italia cresce, ma non basta Attenti a cadere in tentazione».

Intervista a Padoa Schioppa.

da Il Corriere della Sera dell'8/9/2006

 

Ministro Padoa-Schioppa, in questi giorni si discute di miglioramento della congiuntura. Il quadro macroeconomico italiano sta cambiando? Quali prospettive si aprono all'azione del governo?

«La crescita rappresenta oggi la sfida fondamentale dell'economia italiana. Se negli anni 70, 80 e anche all'inizio dei 90 la difficoltà numero uno era l'instabilità, sia monetaria sia di finanza pubblica, oggi l'emergenza è uno sviluppo insufficiente. Anche un'economia stagnante, come quella italiana degli ultimi anni, può avere fasi cicliche di rallentamento e di ripresa, ma la crescita va misurata sui lustri, non sui trimestri. I partner europei continuano a crescere molto più di noi ed è presto per dire quanto dell'attuale ripresa ciclica rappresenti una duratura correzione dello stallo degli ultimi anni. Potremo parlare con più ottimismo solo quando sarà avvenuta una ripresa forte della produttività totale dei fattori, non solo del fattore lavoro, e quando l'economia avrà realizzato per più anni una crescita al di sopra del potenziale».

La ripresa economica aiuta però il risanamento dei conti pubblici?

«Certo. La revisione al rialzo delle stime sull'andamento del Pil è indubbiamente una buona notizia. Ma sarebbe pericoloso — oserei dire una "tentazione diabolica" — pensare che un anno di crescita all'1,5-1,6%, dopo vari anni di "zero virgola", sia la soluzione al problema dei nostri conti».

A Cernobbio il presidente Prodi ha invitato gli industriali a darsi da fare.

«Un esame di coscienza penso sia necessario. Negli anni dell'instabilità monetaria e di bilancio si è chiesto il massimo di consapevolezza al sindacato e l'Italia è riuscita a vincere alcune grandi sfide proprio grazie al contributo sindacale. Oggi il luogo di rilancio dello sviluppo è l'impresa in tutte le sue parti sociali e l'assunzione di questa consapevolezza da parte degli imprenditori costituisce un elemento decisivo. Fino a 15 anni fa la configurazione delle nostre imprese era rappresentata da tre categorie principali: la grande impresa pubblica, i grandi gruppi privati, in genere a proprietà familiare, e una vasta popolazione di piccole e medie imprese. Oggi il settore pubblico si è asciugato e c'è stato un impoverimento della grande impresa privata con l'uscita definitiva dalla chimica, dall'elettronica e, in parte, dalla farmaceutica; il fenomeno non è stato compensato dal rafforzamento dimensionale di un numero sufficiente di piccole o medie imprese. Non è un caso che oggi si lamenti una carenza di grandi imprese e che questa criticità sia sottolineata anche da una sinistra che pure, in passato, non aveva sempre riconosciuto il valore della grande impresa. Le grandi aziende sono essenziali, insostituibili per l'attività di ricerca che vi si svolge e per la formazione dei quadri dirigenti. Non è un caso che negli ultimi anni queste funzioni siano state assunte sempre di più da altri vivai come le società di consulenza e, per certi versi, la Banca d'Italia».

All'inizio del suo mandato Lei ha dato un segnale di forte allarme: "Siamo come nel '92". Ora, alla luce del rialzo di tutte le stime sul Pil italiano, si è pentito?

«Mantengo quel giudizio, anche se sono evidenti le differenze rispetto ad allora. Lo stato della finanza pubblica nel 2005, al netto di un'inflazione che all'epoca era altissima, è per certi versi più critico che nel '92: l'avanzo primario si è infatti quasi azzerato, come allora, e il rapporto debito-Pil è più alto che nel '92. Il confronto che ho voluto proporre si basava essenzialmente su questi due indicatori strutturali e non mi pare sia stato confutato. Oggi lo squilibrio della finanza italiana è di notevole gravità, ma la differenza, rispetto al '92, è che lo squilibrio non è più un generatore di instabilità monetaria, bensì un freno alla crescita: in questo senso il problema dei conti è parte centrale del problema della crescita. Di recente ho incontrato il primo ministro belga, Guy Verhofstadt, e gli ho chiesto come spiegava che da loro le cose andassero a gonfie vele. Mi ha risposto che la loro carta vincente è un avanzo primario dell'ordine del 6%. Fino a pochi anni fa il Belgio aveva un rapporto debito-Pil più alto del nostro, oggi è sceso al 90% dal 130% del 1995».

Le stime ottimistiche sul prossimo biennio dell'economia Ue e italiana possono spingervi a obiettivi più ambiziosi. In parole povere: possiamo sfruttare la congiuntura favorevole per portarci avanti nell'opera di risanamento della finanza pubblica?

«Portare il rapporto deficit-Pil al 2,8% nel 2007 è l'obiettivo, ma rappresenta un traguardo minimo. Il cammino deve proseguire negli anni successivi per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2011. Una vera correzione delle tendenze della spesa pubblica non si può tuttavia ottenere, nella nostra situazione, senza interventi che vadano in profondità, cambiando l'organizzazione e il funzionamento dell'amministrazione pubblica centrale e territoriale. La correzione è resa più ardua dal fatto che misure di contenimento della spesa, come il blocco del turn over e degli investimenti pubblici, sono già inserite nella Finanziaria 2006 e che la strozzatura della dinamica della spesa ordinaria per acquisti di beni e servizi è stata, anno dopo anno, molto accentuata. Si può dire che il nostro bilancio si è asciugato e gonfiato allo stesso tempo: sono stati prosciugati i canali di molte funzioni essenziali, ma nel contempo è cresciuta la spesa corrente che è particolarmente rigida. Modificare il funzionamento della macchina pubblica è, in parte, materia di bilancio e, in gran parte, questione di micro-management, di funzionamento degli uffici. Non basta un colpo della bacchetta magica legislativa, occorre ricreare nello Stato la cultura della sobrietà, dell'uso parsimonioso delle risorse giorno per giorno».

Resteranno risorse sufficienti per lo sviluppo e la crescita?

«Mi auguro fortemente di sì. Certo, non possiamo permetterci il lusso di fare meno di quanto concordato con Bruxelles dal punto di vista del risanamento. Ma il risanamento stesso, quando elimina sprechi di risorse e alleggerisce il peso dell'amministrazione, libera la crescita. Inoltre vogliamo stanziare fondi notevoli per la competitività, la ricerca, le infrastrutture, l'equità e la giustizia sociale. Per questo la Finanziaria prevede ben 15 miliardi di euro da destinare allo sviluppo: è un aspetto al quale non viene prestata sufficiente attenzione, soprattutto da chi si lamenta degli interventi sulla spesa».

E il debito pubblico? Non ci sono le condizioni affinché il rapporto debito-Pil scenda significativamente già nel 2007?

«Dopo due anni di aumento tornerà a scendere nel 2007, grazie alla graduale ricostituzione dell'avanzo primario, per passare sotto il 100% nel 2011. La diminuzione di questo fardello sarà un importante motivo di fiducia».

Il presidente Prodi di recente si è lamentato di un mutato atteggiamento della Ue rispetto alla scorsa legislatura. Lei pensa che Almunia stia applicando una sorta di tabella dei due pesi e delle due misure?

«Credo e spero di no. La Finanziaria 2006 è stata fortemente influenzata dalla necessità di ricevere il via libera dall'Unione Europea, poiché nei confronti dell'Italia era stata aperta (e lo resta tuttora) la procedura per deficit eccessivo. Bruxelles ha compiuto un atto di fiducia, poi lo ha parzialmente corretto perché le condizioni a cui lo aveva legato non si stavano realizzando. Il nostro rapporto con l'Europa è cosa ben più ampia del rispetto del Patto di stabilità, che resta comunque un fattore essenziale; riguarda più in generale il peso politico che l'Italia può avere in Europa e nel mondo. Tocca anche la nostra credibilità internazionale e sui mercati finanziari. Il giudizio di Bruxelles influenza i nostri rapporti internazionali, la nostra presenza economica nel mondo, le scelte delle agenzie di rating, i bollettini delle banche internazionali e anche i flash di Bloomberg e della Reuters».

Lei a Cernobbio ha detto "non sarà Bruxelles a imporci il risanamento" intendendo dire che ci vuole una scelta consapevole. La cosiddetta cultura del vincolo esterno che ci ha consentito negli anni 90 grandi performance non basta più?

«Non tutto si esaurisce nel rapporto con Bruxelles. L'Europa presidia infatti i parametri di finanza pubblica, ma non la crescita della nostra produttività. Il Patto di stabilità si può rispettare anche con un'economia che ristagna e una competitività in calo. La cultura del vincolo esterno, pur importante, non è più sufficiente come ai tempi del nostro ingresso nell'euro: ci vuole un nuovo elemento mobilitante, una spinta endogena, quella che definisco una rinnovata ambizione nazionale. Dobbiamo averla noi, non ce la dà e non ce la chiede o impone nessuno: tantomeno gli altri Paesi europei, ai quali un concorrente debole non dà certo fastidio. L'Italia è come un ciclista, capace di pedalare a 60 km all'ora per riagganciare il gruppo, ma pigro nel fare corsa di testa. In noi è più forte la motivazione del recupero che quella del primato. Ambizione nazionale vuol dire superare questo limite, guardare lungo, impostare una strategia per riportare l'Italia nell'eccellenza».

Un concetto come quello dell'ambizione nazionale può essere condiviso da una coalizione eterogenea come quella che governa adesso? E' già difficile trovare una linea comune su temi contingenti.

«Anche in Germania ci sono difficili negoziati nella coalizione guidata da Angela Merkel, necessari per attuare un programma che pur era stato concordato alla formazione del governo. La stessa cosa avviene da noi. In Italia abbiamo una tradizione quasi secolare che ha sempre visto la sinistra radicale esimersi da responsabilità di governo; questo fenomeno è stato anche all'origine della nascita della dittatura tra le due guerre. Non vale poco che ora essa abbia pienamente accettato di condividere la responsabilità di governo. Non è assolutamente vero che questa coalizione sia incompatibile con la strategia di coniugare sviluppo, risanamento ed equità: un conto è constatare le difficoltà del percorso, altra cosa è considerarle una malattia congenita. Il Dpef è stato approvato sia dal Consiglio dei ministri sia in Parlamento, e la coalizione lo ha votato: se presentassi una Finanziaria non in linea con questo documento sarei io ad allontanarmi dagli impegni presi».

Il confronto all'interno della maggioranza per preparare la Finanziaria appare, per usare un eufemismo, assai laborioso e l'esito finale non è scontato. In più, il confronto con i sindacati si presenta anch'esso colmo di incognite.

«A volte ho la sensazione di essere una persona che, mentre sta giocando una partita di calcio, ne ascolta la radiocronaca. Ma il radiocronista, invece di descrivere il gioco e le azioni sul campo, continua a chiedersi come andrà a finire la partita o come sarà la prossima. Fuor di metafora: lo sapremo il 29 settembre; che oggi la tensione dello sforzo in atto sia percepibile è fisiologico, non è di per sé il preannuncio di un esito o dell'altro. Nel '93, quando si raggiunse il grande accordo sulla concertazione, l'allora ministro del Tesoro, Ciampi, fino a 24 ore prima non era certo del risultato positivo. La concertazione, in verità, è già cominciata a giugno con colloqui molto riservati all'indomani della formazione del governo. Sono fiducioso riguardo al risultato, nonostante la mappa geografica della concertazione oggi si sia allargata rispetto al '93: comprende anche Regioni ed enti locali».

Le ultime dichiarazioni di Epifani e Bonanni dovrebbero però preoccuparla.

«Invece sono convinto che troveremo l'accordo perché siamo ugualmente consapevoli di avere una grande occasione. Credo di comprendere le istanze del mondo del lavoro. Il sindacato italiano vanta una tradizione di forte assunzione di responsabilità manifestatasi in molte occasioni. Analizzando il rapporto tra governi e sindacati nei casi di successo economico dei Paesi europei, possiamo individuare due modelli: quello britannico e quello scandinavo. La Thatcher e Scargill cercarono entrambi lo scontro, finì come sappiamo. Nei Paesi del Nord il risultato economico fu un successo simile, ma il metodo seguito assai diverso: il ritrovato dinamismo di quelle economie è stato possibile proprio per il contributo sindacale. Non c'è dunque una sola via».

Sempre a Cernobbio Mario Monti ha sostenuto che se nel caso delle liberalizzazioni made in Bersani il governo ha seguito il metodo del blitz sarebbe stridente se con i sindacati usasse un metodo del tutto diverso.

«Una cosa è il mondo ideale, le architetture dei quadri di Raffaello; un'altra è quello reale, dove i percorsi per realizzare veri avanzamenti sono quasi sempre tortuosi. Pensare che ci possa essere un piano di liberalizzazioni che dia tutto il tempo di organizzarsi a chi ha armi potenti per bloccarle è un'ingenuità. Affinché una azione difficile riesca occorre grande concertazione, ma anche riservatezza; se fossero stati officiati in diretta tv, i negoziati di Oslo sarebbero falliti. Lo stesso vale per la fusione Sanpaolo-Intesa. In Italia la riservatezza è difficile da mantenere se i partecipanti ad una riunione, come avvenne giorni fa, informano le agenzie di stampa via cellulare dell'andamento della discussione ancora in corso».

A Caorle Prodi è tornato sulla tassazione delle rendite finanziarie.

«Lo confermo: è parte delle misure che stiamo preparando».

I ticket sono lo strumento principe per ridurre la spesa sanitaria?

«Non direi. Forme di compartecipazione sono utili perché circoscrivono l'uso non necessario di strutture o interventi diagnostici costosi, ma non rappresentano certo il pilastro della nostra azione di contenimento della spesa sanitaria. Lo strumento principe è l'applicazione di standard appropriati per le strutture e le pratiche del sistema sanitario».

Negli ultimi anni la spesa pubblica extra-welfare, sanità e pensioni, ha ripreso a viaggiare a ritmo sostenuto. Come pensate di contenerla?

«Nella scorsa legislatura c'è stata una pratica poco felice della contrattazione nel pubblico impiego: molto conflitto e poca disciplina della spesa. Le azioni da mettere in atto sono molte, iniziando dalla razionalizzazione delle strutture statali sul territorio. Snellirle non impoverisce lo Stato, dà invece risparmi consistenti e recuperi di produttività. Il sindacato su questi temi è aperto e, del resto, ha gestito ristrutturazioni importanti nell'industria manifatturiera e nel settore bancario. Ci muoveremo il più possibile nell'ottica delle riforme, non dei semplici tagli».

Non ritiene anche che l'intero processo di bilancio, Dpef più Finanziaria, vada snellito eliminando i passaggi ridondanti?

«Alcune novità vanno apportate. Le relazioni trimestrali di cassa, il Dpef, la Relazione previsionale programmatica, i rapporti che si presentano a Bruxelles costituiscono un apparato documentario di peso notevole; il calendario può essere riveduto e alleggerito. Sono necessarie una documentazione più snella e una capacità di analisi dei conti pubblici. Di qui l'auspicio che si crei in Parlamento un ufficio deputato, al servizio dell'intero schieramento politico e non soggetto al governo. La procedura di bilancio ha nel mese di luglio un passaggio fondamentale per governo e Parlamento, passaggio nel quale si fissa un vincolo di bilancio. Può essere frutto di un documento di una pagina o di 150, ma il valore operativo sta lì. Quanto alla Finanziaria, essa è un convoglio di diversi vagoni: legge di bilancio, la Finanziaria vera e propria, leggi delega e a volte anche un decreto legge. Un treno, poi, che giocoforza effettua molte fermate in Parlamento. In altri Paesi il potere di bilancio è in mano all'esecutivo: quando Gordon Brown mostra la valigetta di cuoio nessuno si domanda se la Camera dei Comuni approverà il bilancio che essa contiene. Ma la dialettica parlamentare è parte integrante della democrazia; è faticosa, ma è un segno di civiltà politica».

Proprio sulle colonne del Corriere lei sostenne il principio di Wimbledon, ovvero che un Paese deve essere orgoglioso se il più importante torneo di tennis si gioca sui suoi campi e non deve guardare alla nazionalità del vincitore. Alcuni commentatori sostengono, però, che bocciando l'operazione Autostrade-Abertis abbia contraddetto, in abbinata con il ministro Di Pietro, lo spirito di Wimbledon.

«Nel caso Autostrade era stretto dovere del governo applicare le norme che avevano presieduto alla privatizzazione della società. La disposizione sul conflitto di interesse con i costruttori era stata inserita a suo tempo per venire incontro a una esigenza di Bruxelles, per evitare che un eventuale proprietario facesse man bassa dei lavori autostradali, riducendo così la concorrenza negli appalti. E' questo il principio che abbiamo difeso, non l'italianità. E aggiungo che non potevamo fare altro. Si può discutere se quella clausola sia da rivedere e io non sarei contrario a farlo: ma pacta sunt servanda. Bruxelles non è infallibile e può darsi che contesti la nostra decisione. Siamo dunque dentro il principio di Wimbledon, perché è più facile spostare un campo da tennis che non l'autostrada del Sole. E chi vuol percorrerla deve venire in Italia: vogliamo buone autostrade, con pedaggi a buon mercato, manutenzione efficiente».

Anche nel caso della sua audizione parlamentare sull'Enel è tornata la stessa polemica.

«Il caso Enel è più complesso. La strategia energetica in ogni Paese ha una forte componente di indirizzo governativo, si impregna di politica. L'Italia è favorevole ad una politica energetica europea anche perché, in caso contrario, avremmo, come sta già accadendo, un inasprimento del protezionismo. Speriamo dunque che Bruxelles sappia agire in tal senso, oltre a far valere le regole. Dal canto nostro non possiamo non collegare questa riflessione a quella sugli assetti proprietari. E' indispensabile che il sistema italiano sia capace di esprimere qualità più alta, conciliare dimensioni, continuità e contendibilità. La struttura azionaria di Enel incontra una soglia che è critica, ma io auspico un mercato dell'energia più concorrenziale in Italia. Ho detto in luglio che alla stagione dello Stato imprenditore e a quella delle privatizzazioni deve seguire una terza stagione, in cui l'azionista Stato non si concepisca solo in funzione dell'andamento dei conti pubblici, vendendo per fare cassa o massimizzando dividendi che costano agli utenti».

Diamo quindi una racchetta a monsieur Colbert per farlo giocare sul prestigioso campo londinese?

«Mettiamo che Wimbledon fosse di proprietà dello Stato britannico: sarebbe un colbertismo intelligente (anziché il colbertismo sciocco di far vincere il torneo a un giocatore britannico) ma sempre colbertismo sarebbe. Lo Stato deve sapere che opera in un contesto di apertura internazionale e di pluralismo dell'offerta assai diverso dal passato. Se il collega Bersani adotta politiche di più forte concorrenza, non sono io a chiedere che l'Enel ne venga esentata. Questi ragionamenti valgono in egual misura per Eni o Alitalia».

La fusione San Paolo-Intesa apre una fase del tutto nuova del sistema bancario italiano?

«E' un atto del mercato, non di politica economica.
Essere stati capaci di realizzare questa operazione è una prova di coraggio, di ambizione delle imprese e del Paese. Il sistema finanziario ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo e la nuova banca dovrà prima realizzare la fusione vera il più rapidamente possibile e, poi, saper essere la banca della crescita».

Ma che relazione stabilisce tra il consolidamento del sistema bancario e la carenza di big player di cui parlavamo all'inizio dell'intervista?

«Gli assetti proprietari non devono essere né troppo stabili né troppo instabili, il proprietario deve sentire il rischio di perdere il controllo e concepire se stesso come al servizio dell'impresa, non viceversa. In Italia, questo equilibrio è stato storicamente faticoso da raggiungere per una cultura imprenditoriale che spesso vedeva l'impresa come proiezione della personalità del fondatore, non come istituzione. L'arte di Mediobanca è stata quella di conciliare il progressivo assottigliamento della forza finanziaria dei gruppi di controllo con il mantenimento dello stesso. Di capitalisti, detentori possibili di azioni, ce ne sono moltissimi: sono invece carenti le strutture intermedie che diano l'equilibrio tra precarietà e stabilità. Ma lo sviluppo dei fondi pensione, il cosiddetto secondo pilastro della previdenza, è indispensabile per rafforzare un anello ancora gracile. Oggi le Fondazioni per molti aspetti lo sono e il ruolo che hanno avuto nella fusione Sanpaolo-Intesa e nell'espansione dell' UniCredit lo dimostra».