Senza ricerca si svende il futuro. Ignazio Marino e Rita Levi Montalcini, la Repubblica del 23/10/2006
Un paese che non investe sulla ricerca e sui suoi giovani è un paese che svende il proprio futuro. E’ questo l’inevitabile destino a cui andremo fatalmente incontro se non affronteremo subito e con determinazione i problemi che riguardano il settore della ricerca e che definiranno la posizione del nostro paese tra le grandi nazioni che trainano la crescita e il progresso scientifico del pianeta, oppure la sua retrocessione nel gruppo dei paesi in via di sviluppo, o forse sarebbe meglio dire di quelli in via di "incerto" sviluppo. Nell’ormai lontano 2000, il Consiglio europeo riunito a Lisbona fissava gli obiettivi strategici per l’Unione Europea al fine di sostenere l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza. L’obiettivo era di aumentare il grado di competitività della Ue a livello mondiale puntando ad investire il 3% del Pil di ogni paese aderente in ricerca e sviluppo. Ad oggi, sulla base dei dati più recenti raccolti dal consorzio Progen (nato per promuovere ed incentivare la ricerca biomedica in Italia) l’Ue investe in ricerca circa l’1,93% del Pil contro il 2,69% degli Stati Uniti, il 3,12% del Giappone e il 2,91% della Corea del Sud. Per dare concretezza a queste percentuali pensiamo solo che per l’anno in corso gli Usa investiranno in ricerca e sviluppo 328 miliardi di dollari, vale a dire dieci volte l’ammontare complessivo della nostre manovra finanziaria! Ci sono poi i brevetti che negli Stati Uniti sono di 4,5 volte superiori, per numero, rispetto all’Europa. Ma le differenze si riscontrano anche nel numero dei ricercatori che nel Vecchio Continente è di 5,3 ogni mille lavoratori rispetto ai 9 degli Stati Uniti e addirittura ai 10 del Giappone. In Italia i numeri sono drammaticamente più bassi: circa 2,8 ricercatori su mille lavoratori. Del resto, nel 2000, il numero dei nuovi dottori di ricerca è stato di 0,16 per mille abitanti a fronte di una media europea di 0,56 e, poiché la principale fonte di ricercatori è costituita proprio dai dottori di ricerca, è facile dedurre che l’Italia non solo è ultima in Europa come numero di ricercatori ma sta perdendo ulteriore terreno rispetto ai paesi sviluppati. Un dato positivo tuttavia va sottolineato ed è che la ricerca italiana risulta di alta qualità ed ha un impatto riconosciuto a livello internazionale. Nonostante questo, i nostri ricercatori incontrano evidenti e scoraggianti difficoltà nel condurre i propri studi. Uno dei principali problemi, come abbiamo accennato, è legato ai finanziamenti che dovrebbero essere per lo meno raddoppiati ma anche veicolati in modo mirato verso i settori innovativi come quello delle bio-scienze. Ci sono poi le questioni legate alle prospettive di carriera dei ricercatori: l’età media dei nostri docenti universitari è di 57 anni, venti anni fa era di 38 anni. Il 70% ha più di 50 anni mentre i giovani di trenta, un’età nella quale la creatività è indubbiamente superiore, non riescono ad accedere nemmeno agli assegni di ricerca. Questo dato spiega in parte il limitato numero di brevetti italiani e la scarsità di progetti che si trasformano in attività produttive, in start up come avviene invece negli Stati Uniti e nei paesi del Nord Europa. Il problema è anche culturale se solo raramente la conoscenza viene convogliata verso processi produttivi mentre sarebbe necessario insistere sull’importanza di brevettare le scoperte e prevedere, all’interno di tutti gli atenei, degli uffici addetti al trasferimento tecnologico che sappiano coniugare le conoscenze scientifiche con quelle legali, tutelare la proprietà intellettuale della scoperta e supportare i ricercatori nel processo di brevettazione o nella creazione di start up. Questo tipo di supporto, praticamente assente nelle nostre strutture di ricerca, permetterebbe, come avviene in molti altri paesi, l’accesso a finanziamenti provenienti anche da privati e sarebbero fonte di introiti attraverso i diritti o la cessione di quote azionarie. La realizzazione di nuove attività imprenditoriali creerebbe ulteriori opportunità di lavoro e potrebbe contribuire a frenare l’emigrazione dei cervelli italiani. Si produrrebbe così un circolo virtuoso da cui trarrebbe beneficio l’intero sistema ricerca e l’economia del paese. Va ricordato poi il problema della fuga dei ricercatori, un fenomeno non quantificabile con esattezza ma che riguarda migliaia di giovani che ogni anno lasciano l’Italia alla volta di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia ed altre nazioni in cerca di opportunità di lavoro e di crescita, mettendo a disposizione di altri le proprie conoscenze e idee, dopo lunghi anni di formazione totalmente a carico del nostro sistema scolastico. Un rapporto del Censis riferisce che il 60% dei ricercatori residenti all’estero ha lasciato l’Italia a causa delle scarse risorse che avevano a disposizione per le attività di ricerca, delle condizioni economiche migliori all’estero, delle prospettive di un più rapido sviluppo di carriera. A queste ragioni si aggiungono i motivi per non tornare che vanno dall’eccessiva burocratizzazione, alla carenza di tecnologie e laboratori, dalla chiusura del mondo universitario che si esplicita in posti di lavoro non adeguati e precari. Ma, sicuramente, l’aspetto più rilevante che tutti i ricercatori italiani all’estero vorrebbero comunicare, è il timore di ritornare in un sistema che non considera la meritocrazia come il principale valore ma che, al contrario, offre promozioni e opportunità, oltre che finanziamenti, sulla base di meccanismi non trasparenti e non misurabili. Non siamo di fronte ad una fisiologica mobilità scientifica ma, come dicevamo, alla svendita del nostro futuro collegata al blocco delle assunzioni, al progressivo taglio dei finanziamenti e delle strutture, alla carenza di strategie, per finire con l’assenza di criteri meritocratici nella valutazione dei progetti e delle capacità di ognuno. Di qui nasce l’idea di creare un’agenzia super partes, formata da esperti italiani e stranieri, scelti esclusivamente in base alle qualifiche professionali e ad una documentata credibilità scientifica, che valuti tutti i progetti di ricerca e decida l’assegnazione dei fondi: un’innovazione che rappresenterebbe una sorta di rinascita per il sistema italiano ancora molto lontano dai rigidi ma legittimi criteri della meritocrazia. L’istituzione di un’agenzia di valutazione internazionale avvicinerebbe l’Italia agli altri paesi europei, darebbe al nostro paese una maggiore credibilità internazionale e rappresenterebbe una solida base per un sistema di assegnazione dei fondi basato sul meccanismo, adottato in tutto il mondo, della "peer review", cioè il giudizio tra pari, ovvero affidando la selezione ad esperti internazionali della materia ed escludendo dai criteri di valutazione l’appartenenza a gruppi politici di potere, o altro. Le preoccupazioni che esprimiamo, e che abbiamo affrontato anche con la Fondazione Italianieuropei, sono riconosciute e condivise a livello internazionale tanto che anche la più autorevole rivista scientifica del pianeta, Nature, lo scorso marzo, ha sentito la necessità di descrivere la situazione italiana sottolineando ancora una volta che i nostri problemi riguardano l’eccessivo peso della burocrazia, un’irragionevole aspettativa di ritorno immediato sugli investimenti, i finanziamenti troppo esigui (circa la metà di quelli che si attenderebbero da un paese con le caratteristiche di grandezza e di ricchezza dell’Italia) oltre che la quasi assenza di criteri meritocratici. E il commento di Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica nel 1984, è stato forse il più eloquente: «I fisici hanno sviluppato una teoria per il caos, ma l’Italia sta conducendo una vera sperimentazione sul caos».
Per invertire questa tendenza sarebbe necessario ringiovanire le
nostre università così come ripensare le carriere professionali, i
salari, ma anche le responsabilità ed i doveri dei ricercatori di
maggior talento puntando sulla trasparenza e sulla meritocrazia. Nello
stabilire i criteri di giudizio è quanto mai importante la scelta dei
valutatori, che debbono essere reclutati in base alla loro competenza
e anche al loro valore etico. Importante l’inserimento, tra questi, di
scienziati stranieri che godano di prestigio nel settore in esame e
non abbiano rapporti di lavoro con i proponenti. Se riusciremo a
stabilire delle nuove norme per una rigorosa valutazione dei progetti
nell’assegnare un adeguato finanziamento, potremo sperare in un salto
di qualità necessario per raggiungere il livello per competere con
altri paesi nei quali la ricerca è sottoposta a imparziali processi di
controllo e valutazione. L’uno e l’altro, sono purtroppo ancora oggi
carenti nello scenario scientifico e tecnologico della ricerca
italiana. Ma non sono problemi secondari perché dalle loro soluzioni
dipende il futuro dei nostri giovani migliori e lo sviluppo del nostro
paese. |