Il nostro sistema scolastico è tra quelli meno
capaci
in Europa di favorire l'emancipazione
Più del merito conta l'origine sociale: la severa diagnosi di sociologi
ed economisti
Se la scuola non ci rende uguali
viaggio nel Paese dei privilegi.
Simonetta Fiori la Repubblica del
28/11/2006
La scuola fa notizia soltanto in casi
eclatanti, o perché preda del bullismo o quando le maestre zittiscono
i bambini con lo scotch. Rischia di passare sotto silenzio la
gravissima diagnosi su cui ormai concordano - cosa piuttosto rara -
sociologi, economisti e pedagogisti: il nostro sistema scolastico è
tra i più arretrati in Europa nel porre riparo alle diseguaglianze
sociali. O, detto in modo più ruvido, la nostra è ancora una scuola di
"classe", che privilegia i ceti agiati e penalizza le famiglie
socialmente più fragili.
Il dato lo ricaviamo non dalla propaganda di pericolosi sovversivi, ma
da una gran messe di cifre sconsolate, tabelle econometriche e
inchieste sociologiche che si riversano in preziose pubblicazioni
accademiche generalmente ignorate dal dibattito pubblico. Dinanzi a
questi logaritmi ogni illusione di democratizzazione è destinata a
franare. Se è vero che nel corso del Novecento è aumentato
diffusamente il tasso di scolarità, non è diminuita la disparità
nell'accesso all'istruzione, soprattutto nel suo ultimo segmento, che
include secondaria superiore e università.
Anzi, a guardare meglio, negli ultimi anni va registrata un'inversione
di tendenza: inesorabilmente al peggio. Per dirla con Marco
Rossi-Doria, un maestro di strada impegnato nella trincea di Napoli,
"è peggio oggi che ai tempi di don Milani". La scuola italiana è tra
quelle meno capaci di favorire emancipazione. La malinconica
acquisizione è documentata in diversi saggi, che di recente hanno
arricchito il catalogo del "Mulino". Basti prendere il nuovo lavoro di
Gabriele Ballarino e Daniele Checchi, un sociologo e un economista
attenti al rapporto tra scuola e disuguaglianza ("Sistema scolastico e
disuguaglianza sociale, pagg. 244, euro 18,50").
Tutta una serie di geroglifici matematici, ricavati dall'incrocio tra
le indagini Pisa (Programme for International Student Assessment) e
dati Istat, convergono nel dimostrare che la scelta della scuola
secondaria - ossia la scelta tra licei, istituti tecnici e istituti
professionali - è ancora fortemente condizionata dal livello di
istruzione dei genitori: in Italia più che altrove. Sicuramente più
che in Germania, dove le capacità individuali sono tenute in massimo
conto. Da noi il merito appare quasi ridotto a un optional. O, meglio,
incide per le classi inferiori, ma è ininfluente per quelle più
elevate.
Due studenti identici in termini di competenze ed esperienza
scolastica, ma diversi in quanto solo uno dei due ha almeno un
genitore laureato, fronteggeranno probabilità di iscrizione scolastica
significativamente diverse. Tradotto in termini statistici, il figlio
del laureato ha venticinque punti percentuali di probabilità in più
rispetto al figlio del diplomato nel proseguire gli studi in un liceo.
Un privilegio ereditario, slegato dalle reali inclinazioni dello
studente. Da questa disparità ne discende fatalmente un'altra, che
coinvolge l'istruzione terziaria ossia l'università. La scelta della
secondaria superiore finisce per condizionare anche il passo
successivo.
Le stesse indagini Pisa mostrano che gli studenti nutrono aspirazioni
diverse a seconda della scuola frequentata. L'80,5 per cento degli
studenti iscritti nei licei dichiara di volersi laureare contro il
34,5 per cento degli iscritti nelle scuole tecniche e il 15,9 per
cento degli iscritti nelle scuole professionali. È la scuola
frequentata, assai più delle personali competenze, a modellare le
aspirazioni dei ragazzi. La diagnosi di Daniele Checchi, preside della
facoltà di Scienze Politiche all'Università di Milano, e Luca Flabbi,
ricercatore della Georgetown University, non lascia margini di
speranza. "Se l'istruzione dei genitori conta perfino nella
transizione universitaria, e non si dissipa col procedere della
carriera, ne dobbiamo inferire che l'Italia è ancora molto lontana
dall'offrire un'uguaglianza nelle opportunità di accesso, così come
anche si riscontra nel mercato del lavoro successivo".
Un paese rigidamente diviso in caste, immobile e marchiato dalle
disparità, dove "la classe di origine influisce in misura rilevante e
limita la possibilità di movimento all'interno dello spazio sociale".
È l'Italia fotografata dall'Istat, che ci colloca insieme a
Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia, nel gruppo dei paesi con la più
alta disuguaglianza e con minore mobilità sociale (concentrata nel
Mezzogiorno la più alta sperequazione dei redditi). E il paese delle
"vite ineguali", secondo una felice formula di Antonio Schizzerotto,
un sociologo che al tema della disuguaglianza nell'Italia
contemporanea ha dedicato vent'anni di ricerche e alcuni libri
fondamentali (vedi box qui sotto).
Nel suo fortunato "Vite ineguali" (il Mulino, pagg. 398, euro 24) ha
messo in evidenza una clamorosa contraddizione che riguarda tutte le
società avanzate, ma in particolare la nostra. Il paradosso poco
democratico per cui "nonostante la crescita del tasso di scolarità,
costante nel corso del secolo scorso, e nonostante le riforme del
sistema scolastico improntate a principi egualitari, l'influenza della
classe di origine sulle chance di proseguire la propria formazione
dopo la scuola media non è sostanzialmente mutata nel corso del XX
secolo". Non solo non è mutata, ma negli ultimi anni la disparità è
addirittura aumentata. Una tendenza rimarcata dal medesimo
Schizzerotto, in un libro recente curato con Carlo Barone ("Sociologia
dell'Istruzione", il Mulino, pagg. 212, euro 18): la diseguaglianza
tende ad accrescere nell'ultimo tratto del percorso scolastico, ossia
all'Università, sulla cui soglia i figli dei ceti deboli inclinano ad
arrestarsi.
Gli americani lo chiamano "glass ceiling", ossia soffitto di vetro.
L'economista Daniele Checchi usa questa immagine per esemplificare le
difficoltà in cui s'imbattono oggi in Italia gli studenti socialmente
più fragili. Impedimenti invisibili, sotterranei, ma non per questo
meno gravosi. In uno studio recentissimo realizzato con Marco Leonardi
e Carlo Fiorio, che ancora deve essere discusso in ambito accademico e
che si fonda su indagini campionarie condotte dalla Banca d'Italia,
egli traduce in cifre questo "soffitto di vetro". Ancora nelle ultime
generazioni, ossia i nati negli anni Settanta, circa il trenta per
cento dei figli di padri con titolo di scuola media raggiunge il
titolo di scuola media, quasi il sessanta per cento raggiunge il
titolo di scuola superiore, ma solo pochi (per percentuali inferiori
al dieci per cento) raggiungono la laurea.
La quota di chi ha conseguito la laurea aumenta più per coloro i quali
hanno avuto un padre laureato piuttosto che per quelli il cui padre ha
solo un titolo di scuola media inferiore. Disparità genera altra
disparità. La laurea come prodotto ereditario. Le ragioni d'un sistema
sostanzialmente fondato sulle caste? Una prima possibile risposta è
legata a "un rendimento differenziale dell'istruzione", che dipende
dal background famigliare. Spiega Checchi: "Se grazie alle reti
famigliari i figli dei genitori più istruiti a parità di titoli di
studio conseguiti trovano accesso alle occupazioni migliori (lavori
più interessanti, meglio retribuiti, con migliori prospettive di
carriera), è chiaro che i figli dei genitori meno istruiti hanno
minori incentivi a proseguire".
C'è poi una seconda spiegazione, legata al diverso costo-opportunità.
"Studiare all'Università", prosegue Checchi, "implica per le classi
meno agiate una maggiore perdita in termini salariali rispetto alle
famiglie di laureati", sacrifici in proporzione assai più onerosi. A
questo s'aggiunge "il maggior rischio dell'investimento", causato da
una più alta probabilità di abbandono. La conclusione è amara, in
un'analisi complessiva dell'ultimo mezzo secolo che pure inclina a
toni rosei. Conviene ascoltare il professor Checchi: "È innegabile che
negli ultimi sessant'anni ci sia stata una crescente scolarizzazione
che ha di fatto accorciato le distanze fondate sull'ambiente di
provenienza. Oltre il trenta per cento delle coorti nate tra il 1915 e
il 1919 non aveva alcun titolo di studio, oltre il 52 per cento si
fermava alle elementari e solo il due per cento possedeva una laurea.
Nel corso del secolo, dunque, la quota di cittadini privi di un titolo
di studio s'è andata riducendo, divenendo inferiore al nove per cento
a partire dalle coorti nate tra il 1940 e il 1944, le prime a
beneficiare della Costituzione repubblicana". Però, aggiunge lo
studioso, "siamo ancora ben lontani dall'aver conseguito la completa
uguaglianza delle opportunità di accesso. Prendiamo gli articoli 3 e
34 della Costituzione. Essi sanciscono "la rimozione degli ostacoli di
ordine economico e sociale" e che "i capaci e i meritevoli, anche se
privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli
studi".
È evidente che il principio declamato dalla carta non si traduce oggi
in una possibilità reale per gran parte della popolazione". Ma una
scuola pubblica che non favorisca mobilità sociale viene meno alla sua
funzione primaria, che è poi quella di consentire ai figli di operai e
disoccupati, contadini o impiegati, di fare cose diverse dai propri
genitori e guadagnare anche meglio. Ne è persuaso Marco Rossi-Doria,
che dal padre Manlio ha mutuato l'impegno meridionalista traducendolo
nella sua attività di maestro di strada nei vicoli dei quartieri
spagnoli. "La possibilità di emancipazione grazie alla scuola pubblica
è internazionalmente considerata anche un indicatore di democraticità
della società. Democrazia e mobilità sociale sono tra loro legate e
hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. Il primo passo
in questa direzione sta nella possibilità che i figli dei poveri,
grazie alla scuola, non riproducano la condizione di partenza, ma
escano dallo stato di indigenza".
È in gioco in sostanza una battaglia di democrazia, che si può vincere
anche attraverso una differenziazione nell'offerta scolastica, dando
di più e di diverso a chi ne ha più bisogno. Parité ed égalité
sembrano svanire nelle aule italiane. Appare tramontata l'illusione,
lungamente inseguita da movimenti democratici e illustri pedagogisti,
di porre fine alle drammatiche disparità nell'accesso alla cultura
intellettuale. Significativo il confronto con il resto d'Europa. Se i
paesi scandinavi occupano le graduatorie più alte nel favorire
uguaglianza, Germania e Francia insieme a Inghilterra e Irlanda si
attestano su una dignitosa medietà, l'Italia occupa i gradini più
bassi, lasciandosi dietro solo Grecia e Portogallo. Il fatto è che
l'egualitarismo non è mai stato un vessillo della nostra classe
politica, neppure a sinistra. L'ha toccato dolorosamente con mano un
protagonista delle battaglie per la democratizzazione della scuola,
Tullio De Mauro, dal 1999 al 2001 anni ministro della Pubblica
Istruzione. Nel volume "La cultura degli italiani", curato per Laterza
da Francesco Erbani, racconta diffusamente le resistenze incontrate
nella stessa coalizione di centrosinistra.
"Una delle obiezioni più frequenti che mi sentivo rivolgere era: "Ma
cos'è questo egualitarismo, questa insistenza perché tutti studino? A
che serve?"".
In controtendenza è la decisione del ministro Beppe Fioroni di dare
attuazione a una riforma pensata da Berlinguer e condivisa dai suoi
successori: l'innalzamento dell'obbligo scolastico ai sedici anni.
Anche su questo c'è l'accordo di economisti e sociologi: posticipando
la scelta della secondaria a un'età più matura, si contiene
l'influenza del background famigliare. Misura egualitaria, dunque,
tesa a valorizzare il merito. Una prima fiammella in quello che è
stato espressivamente definito "il grande inverno culturale". Converrà
incoraggiarla, perché il cammino è ancora molto lungo.