Una proposta per l'università. di Marcello De Cecco, la Repubblica del 15/11/2006
Dice Jean Marie Colombani, direttore di Le Monde, che l´Italia è un laboratorio sociale e politico. Ha ragione, ma più che laboratorio essa è teatro sperimentale: dove altro in Europa è possibile vedere il ministro dell´Università e della ricerca e quello dell´Economia, che dovrebbero, in questi giorni, avere ben poco tempo da perdere, dibattere sui giornali quel che dovrebbero discutere tra loro e coi loro colleghi in seno al Consiglio dei ministri. A parte l´aspetto folklorico, che diverte tutta Europa, forse sarebbe opportuno che, in sede di varo della legge finanziaria, i suddetti ministri riflettessero, nelle sedi appropriate e non sui giornali, su quel che segue, che umilmente si propone loro da un vecchio praticante di aule universitarie. Il ministro dell´Economia dovrebbe sapere che in Italia chiunque ha un titolo di studio secondario superiore ha diritto a iscriversi nella università e nella facoltà che meglio desidera (a eccezione di Medicina, per la quale esiste un numero chiuso che però, solo a Roma, ammette migliaia di matricole all´anno). Il ministro capisca inoltre che in Italia gli studenti fuori corso sono contati nel totale degli studenti universitari perché, al contrario di ciò che accade nel resto d´Europa, essi esistono, sono una cospicua percentuale del totale, e hanno il diritto di essere esaminati, ad libitum e senza limiti, dal personale docente. Proponga il ministro, di concerto con il suo collega dell´Università, che gli esami universitari si svolgano in un´unica sessione, che accerti la loro preparazione generale, nel mese di maggio o giugno, come si fa in tutta Europa, e non concludano ciascun corso di insegnamento, come si fa da noi. Gli studenti, come nelle scuole medie italiane e nelle università d´Europa, siano promossi all´anno successivo o ammessi a ripetere l´anno una sola volta. Alla fine del terzo anno, se passano gli esami finali, siano laureati. Altrimenti abbandonino gli studi. Al massimo avranno impiegato sei anni, se li avranno ripetuti tutti e tre, ma senza intasare tutto il sistema con ripetizioni ad libitum di esami che impegnano stupidamente loro stessi e i loro esaminatori. I due ministri si accordino per concentrare il biennio, che segue il triennio e conferisce la laurea magistrale, solo nelle università meglio attrezzate di docenti e strutture edilizie e di ricerca. La gentildonna che ora siede a Palazzo Marino, ricevè, quando era ministro della Istruzione e delle Università, urgenti e qualificati appelli acché volesse negare la propria firma ai decreti che istituivano i corsi biennali in tutte le università italiane e operasse una selezione nel modo indicato. Non volle farlo, forse per l´imminenza delle elezioni regionali, che la sua coalizione perse comunque clamorosamente, e mostrò così che cedere al clientelismo e al municipalismo non è solo debolezza dei professionisti meridionali della politica. Ora tocca a Mussi e Padoa-Schioppa, e a Romano Prodi, prendere la decisione assai più penosa di togliere quel che la gentildonna tanto inopportunamente ha concesso. Potrebbero farsi consigliare nel decidere a chi dare e a chi togliere, da prestigiose commissioni scientifiche internazionali che valutassero sul merito delle singole sedi. I ministri competenti, suppongo i due già nominati più la signora Turco, si accordino per trasformare la facoltà di Medicina della Università La Sapienza in un istituto universitario autonomo, come da anni molti di noi consigliano che si faccia. I conti del mega-ateneo romano appariranno come per miracolo risanati, perché il deficit pauroso che li affligge da decenni è causato dal costo del Policlinico, il cui personale docente figura come personale della Sapienza. E, una volta tolti i docenti di Medicina, che sono legione, come per incanto si scoprirà che il rapporto docenti/studenti della Sapienza è uno dei più bassi d´Italia. Possono anche, i suddetti ministri, allargare la appena consigliata misura anche alle altre università. Gli stessi ministri, con la giustificazione della emergenza finanziaria lasciata loro in eredità dal precedente governo, possono anche abolire i contributi che il bilancio dello stato concede annualmente, e da molti decenni, alle università private italiane. Possono, i detti ministri, anche porre termine all´accordo pluridecennale secondo il quale il personale docente delle università private aderisce al sistema previdenziale statale. In tale sistema quelle università conferiscono risorse minori di quelle che ne traggono sotto forma di pensioni al proprio personale in quiescenza. Non per loro cattiveria, ma perché cosi funziona un sistema pensionistico che è stato per decenni completamente retributivo.
Possono pure, i detti ministri, por
fine anche all´accordo secondo il quale le università private si sono
associate al sistema col quale il sistema universitario pubblico
nomina i nuovi docenti e fissa le loro retribuzioni. Così, finalmente,
le università private si troveranno libere di contrattare stipendi e
assegnare docenze al proprio personale, di praticare cioè quel sistema
di libero mercato che tanti tra i loro docenti predicano.
Sono proposte in fondo modeste. Ma
chi scrive ha ragionevoli motivi per ritenere che in realtà esse
sarebbero fortemente eversive dello stato di cose che,
sfortunatamente, ha prevalso nel mondo universitario italiano e che
impedisce ad esso di fornire ai nostri giovani concittadini
l´educazione e a tutta la popolazione il livello di ricerca che
meritano gli abitanti di un paese civile e che essi pagano con le loro
imposte. |