Non servono più soldi senza nuove regole

Errori e miti sull'università.

Francesco Giavazzi, Il Corriere della Sera del 14/11/2006

 

Le università nella maggior parte dei Paesi europei, non solo in Italia, funzionano in base a quattro principi, tutti sbagliati: l’istruzione universitaria non è pagata dalle famiglie, ma dai contribuenti; il contratto di lavoro e le regole di assunzione dei docenti sono quelli del pubblico impiego; le leggi e le procedure che regolano le università sono spesso centralizzate e quasi sempre rigide; le retribuzioni dei professori non sono differenziate e il fine più o meno esplicitamente dichiarato della politica universitaria è l’equiparazione della qualità dell’insegnamento e della ricerca tra i diversi atenei. La discussione sul futuro delle università è piena di miti che negli anni hanno prodotto politiche per lo più sbagliate. E non è una sorpresa, perché i professori hanno un forte incentivo ad impedire che ciò che non funziona venga corretto e talvolta cercano di proteggere i propri privilegi usando la loro influenza anche come opinion makers .

Una tipica lamentela è la mancanza di risorse: «I nostri stipendi sono miseri e in più non ci sono soldi per la ricerca». Innanzitutto non è vero (si vedano i confronti di Roberto Perotti tra costi e produttività nelle università in Italia e Gran Bretagna, che Alberto Alesina ed io abbiamo spesso citato). Ma perfino se il problema fossero le risorse, buttare più denaro in queste università senza prima cambiare le regole arcaiche che le governano significherebbe aumentare sprechi e privilegi, perpetuare un sistema che impedisce la concorrenza fondata sul merito, non migliorare la ricerca.
Prima dei finanziamenti conta la struttura degli incentivi: in Italia una volta entrati nell’università ci si resta per sempre, anche chi non fa più nulla. Lo stipendio cresce solo con l’anzianità, il merito è irrilevante: perché fare uno sforzo per eccellere? Le nomine sono governate da un complesso procedimento burocratico che implica innumerevoli «giudici» scelti in tutto il Paese. Questo processo dovrebbe «garantire» la scelta dei migliori, ma non è così. In realtà i «giudici» favoriscono i gruppi d’interesse interni e i loro protetti, invece di privilegiare la qualità della ricerca o dell’insegnamento.

E’ vero che nell’università i giovani sono pagati poco, ma queste retribuzioni fanno parte di un patto implicito: in cambio della cattiva paga chiunque abbia un posto lo mantiene automaticamente. Non c’è bisogno di produrre ricerca di buon livello. E poiché le retribuzioni sono basse i presidi chiudono gli occhi di fronte a insegnanti pigri e assenteisti e a scarsa ricerca.

È certamente vero che alcune ricerche sono costose, che i buoni cervelli non sono a buon mercato. Ma solo introducendo un po’ di concorrenza tra le università le risorse si sposteranno dalla mediocrità all’eccellenza.

Non sorprende più nessuno che le università americane attirino i migliori studiosi d’Europa. Ciò che è sorprendente di fronte a questa fuga di cervelli è il potere della lobby dei professori universitari - spesso gli stessi che pontificano sul beneficio della concorrenza in altri settori - nel bloccare le riforme.

«Luoghi comuni», diranno molti miei colleghi, «l’università è molto cambiata». Vorrei crederlo. Se davvero lo fosse il ministro Mussi avrebbe un modo semplice per dimostrarlo: assegni una quota significativa delle risorse in base alle valutazioni che il suo stesso ministero, tramite il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (Civr), ha appena svolto. Da questo anno accademico, non «in futuro» come invece ha annunciato.