LA POLEMICA
Divide l´apertura del cardinal Martino, da destra coro di no

Il Corano nelle scuole

e la deriva "ottomana".

Guido Rampoldi, la Repubblica del 10/3/2006

 

Come altre nazioni europee alle prese con una massiccia immigrazione, cominciamo a somigliare anche noi ad una democrazia ottomana. Certo molto più libera del mondo dominato dalla Sublime porta, ma in fondo organizzata in modo non dissimile. E cioè come una gerarchia di comunità, ciascuna titolare di diritti collettivi e tutte identificate secondo la propria religione. L’opposto d’un sistema liberale.

 

La proposta di introdurre l’insegnamento del Corano nelle scuole racconta di questa deriva. Come è noto, dopo infinite esitazioni il governo ha formato una Consulta islamica, organismo delegato a rappresentare il milione e oltre di musulmani che vivono in Italia. Questa soluzione è stata preferita ad una proposta di legge sulla libertà di culto che era assai più liberale, e soprattutto assai più sensata, poiché permetteva di risolvere con pragmatismo le legittime richieste di questa o quella comunità locale. Avendo invece ridotto alla dimensione religiosa, l’Islam, la grandissima varietà di orientamenti (spirituali, politici, "culturali") prodotti dalla complicata storia dell’Africa e del Medio Oriente, il governo ha ottenuto una risposta altrettanto "ottomana". L’Ucoii, in seno alla Consulta, ha proposto che la scuola pubblica organizzi "l’ora di religione islamica" per i duecentocinquantamila studenti di fede musulmana.

La richiesta non può destare scandalo, tanto più perché il documento che la formula sottolinea più volte l’intenzione di evitare «l’affermazione d’una identità islamica separata e conflittuale». Eppure la strada indicata conduce proprio alla separatezza, non foss’altro perché comporta la divisione automatica in classi di cattolici e classi di musulmani, cui in futuro potrebbero aggiungersi con diritto classi di confuciani, di induisti, di luterani...

Altra cosa sarebbe se nelle scuole italiane gli uni e gli altri si affacciassero, per esempio, sulla poesia persiana del Duecento o sulle prime teorie dei diritti umani elaborate a Bagdad dodici secoli fa, insomma su elementi che conservando forza o attualità suscitano curiosità e rispetto per altre "culture". Ma questa soluzione è fuori dallo schema ottomano, per il quale la differenza non è un’opportunità per imparare ma un confine che non è prudente varcare. Beninteso, senza identità ben definite non può esservi comunicazione: ma non riusciamo a capire per quale motivo la fede debba essere la radice unica dell’identità. O perché la scuola debba insegnare religione e non, per esempio, etica; distinguere secondo un presunto etnos e non, piuttosto, tentare di trovare un terreno condiviso, una "civiltà umana". E soprattutto non riusciamo a intendere quale sia la convenienza di noi tutti nell’omologare fin dall’adolescenza immigrazioni e Islam diversissimi tra loro dentro un’"identità islamica" tanto monolitica quanto artificiosa.

V’erano insomma motivi seri per obiettare. Ma le contestazioni sono state di tutt’altro tipo. Tralasciamo gli schiamazzi leghisti. Com’è stato evidente dalla contraddittorietà di alcune reazioni, la proposta della Consulta ha diviso la curia cattolica. All’audace non obstat del cardinal Martino ha fatto da contrappunto l’invito alla prudenza del cardinal Tettamanzi.

Subito imitato con solerzia da Rutelli come da politici del Polo, Tettamanzi è tornato a parlare di reciprocità, volendo dire: s’insegni Islam nelle scuole italiane solo quando s’insegnerà cristianesimo nelle scuole saudite, cioè (forse) in un remoto futuro. Su queste pagine Stefano Rodotà ha già dimostrato che la reciprocità dovrebbe essere una categoria estranea alla nostra democrazia liberale. Si può aggiungere che ancora trentacinque anni fa la società saudita era poverissima, feudale e per una parte semi-nomade, sicché non ha molto senso pretendere che adotti d’incanto i nostri standard. Ma certamente rimarcare differenze vistose nella libertà di culto potrebbe suggerire qualche apertura ad alcuni regimi arabi particolarmente ottusi. Però è davvero questo che interessa alla Chiesa? V’è nella curia un’ala ottomana che da tempo osserva con entusiasmo, e in qualche modo incoraggia, un presunto «risveglio identitario» delle popolazioni occidentali impaurite dal terrorismo islamico. Secondo il cardinal Ruini, per effetto di questo soprassalto la fede cristiana torna ad essere la base dell’identità nazionale e dei suoi valori. In altre parole il cristianesimo sarebbe per l’Italia ciò che l’Islam sunnita era per l’impero ottomano: il fondamento spirituale della nazione, come tale in diritto di pretendere una posizione dominante rispetto alla altre religioni. Ma tutto questo non è nella nostra Costituzione. È invece in una prassi tuttora in vigore, al punto che perfino la nomina del direttore del Tg1 sembra richiedere un nulla osta d’Oltretevere. Tuttavia anche la prassi oggi è messa in discussione dall’immigrazione, con quel che ne consegue: l’ingresso sulla scena di altre fedi che da una parte convergono sull’idea che lo Stato debba riconoscere alla religione un ruolo privilegiato, ma dall’altra chiedono spazi identici per ogni credo.

Sta entrando in crisi una centralità millenaria e l’angoscia della cristianianità è comprensibile. Lo è meno l’imprudenza con la quale parte della curia romana cavalca l’equazione identitaria ed accetta l’alleanza offerta dalla destra guidata dal Gran visir Marcello Pera. Il quale appunto difende un diritto differenziale, ottomano: poiché «il cattolicesimo fa parte della mia identità di italiano», argomenta, esso ha diritti che non possano essere accordati all’Islam. Questa ideologia "identitaria" certamente conviene a quella destra che s’aggrappò ai neocon e franati quelli ora non sa da chi mutuare una visione del mondo. Ma non conviene alla Chiesa, che rinuncia all’universalismo e si rinchiude in un recinto etnico. E ancor meno conviene all’Italia, che discriminando questi da quelli in base alla religione rafforzerebbe le identità collettive degli esclusi, aumenterebbe la frammentazione e incentiverebbe il "multiculturalismo" rigido verso cui stiamo slittando. La scorsa settimana il Corriere della Sera ha domandato ad esponenti dell’associazionismo ebraico se D’Alema può fare o no il ministro degli Esteri. Non conosciamo D’Alema né sappiamo se sia no il miglior candidato alla Farnesina: però troviamo sorprendente il metodo. In Italia invece sembra del tutto normale.

Non siamo certo l’unica democrazia europea per così dire "in transizione". Ma questo non ci consola. A ripiegarsi sul proprio ombelico, si converrà, sono le nazioni che non sanno più dove stanno andando né come ricostruire un progetto collettiva. Che guardano indietro invece che guardare avanti. Che coltivano il narcisismo delle differenze invece che la curiosità e la sfida con il futuro. Se poi fanno fede i giornali, viviamo le problematiche "identitarie" con un’intensità maggiore ad altri Paesi occidentali. Può darsi che questo derivi dall’eclisse delle identità politiche, del tutto evidente in queste elezioni: un buon numero di candidati che si presentano con l’Ulivo potevano presentarsi con il Polo senza destare scandalo alcuno; e viceversa.

Non è male che "destra" e "sinistra" non siano più tribù nemiche, antropologie agli antipodi: ma se fossimo usciti da un tribalismo per entrare in uno anche peggiore, rimpiangeremmo il tempo dei "rossi" e dei "neri". Anche per un altro motivo. Si direbbe che a provare con tanta aspra intensità le ansie identitarie non siano le opinioni pubbliche, ma alcune consociazioni di giornalisti, formate per la gran parte da reduci del marxismo-leninismo. Come se costoro, da tempo orfani d’un’identità forte e totalizzante, avessero finalmente trovato un succedaneo nel "comunitarismo" di Pera. In questo caso dovremmo concludere che il comunismo, defunto come ideologia, è diventato una sindrome.