Colloquio sulla scuola.

di Giuseppe Limone da Fuoriregistro del 21/7/2006

 

Ad Alessandra Ricciardi di "ItaliaOggi", con viva cordialità

Oggi la Scuola, di ogni ordine e grado, fino al livello universitario e post-universitario, è diventata, anche per una paradossale congiura bipartisan fra le forze politiche, un'urgenza nazionale. E' necessario, pertanto, che qualcuno abbia il coraggio di dire alcune cose scomode e inattuali.

Occorre, per essere adeguati veramente alle sfide, riuscire a far propria una vera epistemologia della complessità, pensata in modo rigoroso (si guardi, per un puro riferimento, agli scritti di Edgar Morin): un'epistemologia capace di muoversi oltre alcuni cronici vizi: il provincialismo dell'antiprovincialismo, la separazione fra i saperi e l'inconsapevolezza delle radici.

Non occorre ricordare quello che già Elio Vittorini una volta sottolineava, ossia che la cultura vera deve riuscire a superare la vecchia contrapposizione fra saperi ('umanistici' e 'scientifici') per avviarsi a una nuova articolazione, capace di realizzare un autentico salto di qualità. Ma quello che certamente Vittorini non intendeva dire, era che i saperi 'umanistici' dovessero essere accantonati per privilegiare i saperi 'scientifici'. Esistono, oggi, insieme col sapere tecnoscientifico, scienze epistemologiche e scienze dei valori. Chi se ne accorge? Eppure, una tale robusta verità dovrebbe essere lampante, sol che si riuscisse a guardare con intelligenza a due precise vicende: si pensi, da un lato, all'emergere incontenibile di discipline etico-valoriali e filosofico-epistemologiche dal seno stesso del sapere tecnico-scientifico, che ne avverte il bisogno per un'imperiosa necessità endogena (si pensi, solo per un esempio, ai saperi bioetici, alle discipline epistemologiche, ai nuovi saperi trans-disciplinari ben più che 'interdisciplinari', ai nuovi bisogni epistemologici di reciproche contaminazioni fra scienze), e si pensi, dall'altro lato, al moltiplicarsi di fatti sociali inquietanti che indicano non tanto la 'crisi di valori', ma la crisi nella domanda di valori.

La scuola sembra oggi sottoposta a un quadruplice paradossale assedio: da parte del sistema massmediatico, da parte del sistema tecnico-economico, da parte del sistema burocratico (quanto tempo inutile viene sottratto in carte al tempo della formazione e della ricerca!), da parte del sistema politico. Occorre saper reagire con intelligenza a questa sfida. Sfida che deve essere raccolta soprattutto da un altro attore, quello della società civile pensante, che deve restare il vero alimento - ma indipendente - del sistema dei partiti.

Oggi assistiamo quasi rassegnati al grave scadimento culturale in cui versano i giovani che arrivano all'università. Ciò, mentre i loro docenti sembrano di fatto destinati a una strana simbiosi fra l'autodisistima e la rassegnazione, oltre che a un accelerato burn-out. Tutto ciò non è una sciagura meteorologica. La scuola non può essere trasformata in una 'macchina di servizi': essa è un centro di formazione, di inculturazione, di educazione, destinata a rigenerare in ognuno le condizioni culturali e simboliche in cui la società è storicamente pervenuta. La presenza e invadenza del sistema massmediatico non può e non deve intimidire la scuola, né metterla sulla difensiva, ma farla partire per un più serrato confronto con esso - e al suo livello. Ma una tale scuola può agire a tale livello solo se ha le risorse adeguate per farlo (un personale altamente motivato e mezzi congrui).

La scuola, trascurata, è una bomba all'orologeria, i cui danni, devastanti, esplodono a distanza di tempo. Sicchè può ben dirsi che qualsiasi potere politico, per quanto concerne la scuola, riesce di fatto a operare in una situazione di sostanziale irresponsabilità.

Occorre, a tal fine, snidare - oggi - alcuni pericolosi equivoci, insidiosamente nascosti anche nel lessico della classe dirigente. Vediamone alcuni.

Si dice che investire nel sapere scientifico è importante perché è investire nella capacità d'innovazione del sistema e nella sua crescita (economica). Si gioca, in realtà, sul significato multiplo di 'sapere' e di 'società civile'. Dimenticando di dire che il 'sapere' è importante non solo perché, in quanto sapere tecnico-scientifico, serve a far crescere il sistema economico, incrementandone il PIL, ma anche, e forse soprattutto, perché, in quanto sapere valoriale ed epistemologico, dà strumenti critico-filosofici di fondo per orientare e dirigere la società degli uomini, le sue scienze e le sue scelte. Una scuola non deve generare solo operatori per la produzione, ma persone che pensano. La scuola non deve dare solo la competenza sui significati, ma l'educazione alla ricerca del senso. E non si parla di questo o di quel tipo di scuola, ma di qualsiasi scuola. E' la complessità della società contemporanea che l'impone. Se la scuola, con i suoi curricula concreti, non dà gli strumenti per pensare, avrà fallito il suo fine. Gli specialismi maturi non possono non mirare a una nuova frontiera, fatta di una rottura orizzontale e verticale. Rottura orizzontale, perché i saperi si aprono a nuovi nessi, che ritrasformano i saperi stessi di partenza. Rottura verticale, perché i saperi si aprono a nuove consapevolezze di orizzonte e di senso: metodologiche, epistemologiche e valoriali. Uno sfondamento orizzontale e uno sfondamento verticale che spalancano un nuovo modo di pensare - uno sguardo più profondo e più alto. Che non è più un lusso, ma una necessità.

Oserò dire, in un tale contesto, di più: la scuola deve essere una funzione e un 'potere' della Repubblica e non un 'servizio'; e - perciò - è lo Stato che deve essere al servizio della scuola e non la scuola dello Stato. Perché la scuola è un grande strumento della società civile e della sua necessità di generare uomini civili.

La scuola, insieme con un certo sistema massmediatico, sta diventando, invece, un paradossale modo per investire nell'incultura. Perché produrre silenziosamente 'incultura' è far crescere una rendita preziosa, con la quale si potrà, prima o poi, con un sol tratto di penna, cancellare ogni democrazia, o renderla un simulacro. Chi investe nell'incultura, oggi, lavora, senza lasciar tracce, per la tirannia.

Ci sono, nel nostro tempo, alcune tendenze che vanno identificate e tarate. Occorre, ad esempio, contrastare criticamente e con forza, una certa retorica dei numeri pensati come misuratori neutri. Si rende necessaria, in proposito, una critica epistemologica del 'numerare', che sappia epistemologicamente contrastare quella che forse Vico avrebbe denominato, a suo modo, la 'boria dei numeri'. L'enfasi acritica consegnata al 'sistema dei crediti' ne è un'ottima spia. Si misura tutto (anche le pagine ...) presupponendo che la misura sia oggettiva e neutra, laddove può essere angolata e faziosa, se non sviante. Non solo. Altra cosa da contrastare con forza è l'enfasi acritica attribuita a un'informatica pensata solo in senso dirigista (si dà di fatto mano libera a elaboratori di software centrali che diventano i veri sovrani).

E', inoltre, urgente sburocratizzare la scuola dalla nuova elefantìasi delle carte per farla respirare - e per riconsegnarla alla sua funzione, che è il formare e il far pensare. Ciò vale anche per l'Università. E sarebbe, qui, molto interessante, forse, sottoporre a controllo epistemologico quegli stessi criteri di controllo con cui alcune recenti leggi e 'riforme', per realizzare un controllo, richiedono così tanto tempo al 'tempo-uomo' costituito da ogni docente. Ci si domandi: calcolando in numeri il tempo da dedicare alle pratiche burocratiche da parte di ogni docente, quale tempo residua allo stesso docente per la sua funzione formativa, autoformativa, didattica e di ricerca?

Direi perciò, qui, alcuni punti, assolutamente inattuali:

1. Immettere in qualsiasi scuola, di qualsiasi tipo, discipline di carattere critico-filosofico. Si tratta, infatti, di discipline che, di qualunque tipo e livello di formazione si tratti, sono, a un certo livello di maturazione conoscitiva, invocate dalla formazione stessa, cui dànno 'una marcia in più'. E non in una logica di aggiunzione, ma di nuove interazioni.

2. Avere il coraggio di ripensare i curricula inserendo fra gli obiettivi formativi una parola e un valore ormai dimenticati: l'educazione.

3. Liberare il lessico scolastico da terminologie non neutrali né innocenti, fortemente incongrue con i fini della scuola (si pensi alla 'economicità' e ai 'prodotti').

4. Dare forza di garanzia costituzionale a una riserva di fondi, in termini di bilancio dello Stato, per le spese in formazione e in ricerca (umanistica e tecnoscientifica). Il restringimento strutturale dei fondi all'Università, che data da anni, può essere contrastato sul serio solo con garanzie di livello costituzionale, vero antidoto contro le rituali retoriche di ogni governo.

5. Inserire nella scuola - contro l'elefantíaco processo di 'proceduralizzazione' in atto - elementi di forte semplificazione, per restituire ai docenti tempi veri di formazione e ricerca e non tempi di carta.

6. Dare spazio reale in ogni scuola a laboratori di saperi incrociati, di seminari permanenti fra discipline diverse, di percorsi creativi, di arti, di letture, di poesia, di sperimentazioni, di ricerche, di pubblicazioni, di confronti fra diversità. La stessa presenza di culture religiose diverse può essere, oggi, occasione di riflessioni unitarie. Una scuola non ha da fare con 'oggetti' o con 'prodotti', ma con tanti ragazzi, con vissuti, con storie, con culture, con tante differenti persone. La stessa nuova riflessione epistemologica sull'economia non può non far ripensare in modo forte il rapporto fra l''utile' e il 'valore'. Nella scuola non si producono pacchi, ma si formano teste e si educano persone.

7. Un uso intelligente dell'informatica, che non la trasformi da risorsa in ostacolo. L'informatica che concorre a burocratizzare, potrebbe servire a burocratizzare. L'informatica che accentra, potrebbe servire a decentrare. L'informatica che crea strutture di vertice, potrebbe creare istanze di contro-verifica critica 'dal basso' e in nome di valori non considerati in sede centrale. Le potenzialità informatiche vengono, nascostamente e di fatto, ridotte a senso unico e impoverite.
Occorre inoltre, guardarsi da una strisciante nuova retorica: quella dei numeri. I numeri, infatti, considerati per antonomasia i criteri che spogliano ogni retorica, rischiano di diventare i portatori insani di una nuova retorica - quella che celebra la propria giustezza a partire dalla pura seduzione di un grafico. Ma i numeri non sono mai innocenti, né neutrali. Essi, infatti, numerano sempre qualcosa - un 'qualcosa' che è discutibile fin dall'origine: da come esso viene contornato, ritagliato, identificato, scelto, fatto prevalere rispetto a 'qualcos'altro', e pur sempre nell'ambito di una logica della 'numerabilità'. E già identificare come area omogenea un certo 'indicatore' è criticamente problematico. Non occorre scomodare il citatissimo Habermas per ricordare che ci sono tante epistemologie diverse a seconda dell'interesse teorico-valoriale intorno a cui ognuna ruota.

8. Dare dignità vera al docente, sottraendolo - con percorsi certi, seri e favorenti - alla sua deriva di residualità rassegnata. Occorre restituire ai docenti lo status simbolico che ad essi compete. Ma per restituirglielo non bastano parole: occorrono risorse ben spese (anche in termini di detassazione per la formazione). I docenti sono magistrati di una funzione civile, di valore pubblico: formare, educare, far pensare. Si tratta - contro tutte le mistiche mercantili delle tre 'i' - di istituire percorsi forti contro la frammentazione.

Oggi abbiamo un congiunto bisogno di tecnoscienza e di scienze dei valori. E 'scienza dei valori' significa dicipline critico-filosofiche, conoscenza storica, lingue antiche e moderne (non si sa perché mai contrapposte!), capacità interpretativa della presente storicità, sensibilità teorica ed epistemologica, conoscenze civili e religiose, educazione. E significa, al tempo stesso, costruzione mirata di un sapere tecnico-scientifico e tecnico-professionale non separato dalle scienze dei valori, nella coscienza di un suo necessario inquadramento epistemologico e valoriale.

E', questo, il vero modo per generare il salto qualitativo auspicato da Elio Vittorini. Si tratta, infatti, di formare a una forte epistemologia della complessità, in cui i nessi metaforici di contaminazione fungono da detonatore di cambiamento. Si tratta di una 'complessità' da concepire in modo rigoroso, nel tempo della crisi dei fondamenti (Gödel, Heisenberg, Popper, Lakatos, Feyerabend, Morin) che sa della necessità di pensare a più livelli e a più voci. Cultura è ciò che fa pensare, ciò che dà a pensare, ciò che esprime pensare. Giambattista Vico l'aveva, nel suo genio - più declamato che compreso - lucidamente previsto: occorre cogliere il 'vero' nel 'fare' e il 'vero' nel 'certo'. Il che significa, alla scala dell'oggi, comprendere come ogni separazione fra 'saperi', dimenticando i due poli essenziali del valore e del concreto, ha tradito quel decisivo discrimine che fa l'uomo uomo: la sua vocazione civile. E Vico metteva, non a caso, al centro della civiltà umana, insieme col reciproco soccorrersi, il senso del 'pudore'. Che è il sentimento dei confini - verso gli altri e verso sé stessi. Quel sentimento che è a fondamento di tutto - violato il quale non c'è che la catastrofe, anche per le 'scienze' e le 'ragioni' più raffinate.

Non c'è, infatti, solo una soglia di sostenibilità ambientale. C'è anche, a una seconda e terza potenza, una soglia di sostenibilità nella divisione tra i saperi - e tra il 'vero' e il 'certo'. E Giambattista Vico, che tanto ha pensato sul metodo degli studi nel suo tempo, dovrebbe essere, oggi, il vero reagente chimico, la vera cartina di tornasole per ogni pensiero sulla scuola.


Giuseppe Limone

Professore Ordinario di Filosofia del Diritto e della Politica presso la Seconda Università degli Studi di Napoli
Professore di Filosofia delle Scienze Sociali presso l'Università degli Studi del Molise