Finito di sfogliare

l'ultimo rapporto Ocse

sullo stato dell'istruzione

nei Paesi membri dell’organizzazione,

chi può dire che non fosse necessaria

una riforma della scuola in Italia?

di Gaspare Barbiellini Amidei da Il Corriere della Sera del 7/1/2006

 

Fotografia internazionale: una scuola vecchia nei suoi docenti, ultraquarantenni al 90%, contro il 64% della media Ocse; una scuola priva di nuove idee e nuove energie, con solo l’1,8% di professori sotto i 30 anni, contro una media Ocse di 16 trentenni ogni cento docenti; una scuola nella quale la società investe il 4,9% del suo prodotto interno lordo contro il 5,8% dell’Ocse. In una struttura inefficiente abbiamo poco più di 10 alunni per docente nelle medie contro i 14,6 dell’Ocse. Il costo per alunno è più alto che altrove, 7.474 dollari contro i 6.081 della media Ocse. Però gli stipendi dei docenti sono fra i più bassi. A fine carriera un professore in Lussemburgo va in pensione con una retribuzione doppia rispetto a quella italiana. In compenso superiamo gli altri Paesi nei numeri del personale: 139 fra docenti e non docenti ogni 1.000 studenti, contro i 107 della media Ocse. Inoltre, una scuola povera di competenze matematico-scientifiche: siamo gli ultimi fra i tredici Paesi più industrializzati del mondo nei test per la soluzione di problemi scientifici. Siamo gli ultimi anche nelle competenze matematiche rilevate dai test del Pisa (Programme for International Student Assessment).

È un’Italia meno diplomata e meno laureata del resto del mondo avanzato, 10 laureati ogni cento cittadini contro i 24 dell’Ocse, 44 diplomati contro i 66 dell’Ocse.

Da questa sintesi straniera - con statistiche riferite in gran parte al 2003 - viene implicito l’invito a darsi una mossa. La riforma Moratti è nata nei suoi auspici e nelle sue giustificazioni con lo scopo di darsi questa mossa.

Finora i nodi maggiori non sono sciolti. Alcune premesse che si presentavano come centrali e risolutive parrebbero essersi illanguidite strada facendo. Eppure almeno su tre punti di debolezza che il rapporto Ocse segnala esistevano nelle carte iniziali della riforma formule per uscire dalla condizione di immobilismo.

1) La vecchiezza della struttura docente doveva essere superata con il meccanismo di reclutamento e di preparazione di giovani avviati alla laurea magistrale. Dopo una prima laurea triennale i futuri professori dovrebbero accedere a un percorso biennale di formazione specifica fino al conseguimento di un titolo forte. Poi dovrebbe cominciare un anno, retribuito, di praticantato con gli alunni in classe. I praticanti verrebbero affiancati da altri docenti esperti. Infine verrebbero la conferma e l’immissione in ruolo, a 25-26 anni. Tutto questo è ancora teoria. Fra i 35 mila precari (giustamente) immessi di recente nei ruoli, solo il 2% ha meno di 30 anni, il 20% ne ha più di 50.

2) L’inferiorità numerica della popolazione italiana nella scolarizzazione medio-alta poteva essere superata da un efficace e dignitoso avvio del percorso alternativo di istruzione e formazione professionale, che la Costituzione affida alle Regioni. È tutto fermo.

3) La povertà delle competenze matematico-scientifiche doveva essere affrontata anche liberando il sistema dell’istruzione dall’antica gerarchia piramidale socio-culturale. Doveva ridursi la licealizzazione degli studi più ambiti, che hanno al vertice il liceo classico. Sta per ora succedendo il contrario di quanto si programmava, c’è un boom di iscrizioni ai licei, classico in testa.

Con dati che risalgono al 2003, l’anno stesso del varo formale della legge Moratti, è presto per proclamare definitivamente il fallimento della riforma. Ma non c’è da essere ottimisti.