JAMES HECKMAN Nobel per l'Economia nel 2000 «Il lavoro temporaneo? Un vicolo cieco». L'economista: è meglio fare ricorso al salario flessibile Il Corriere della Sera dell'1/12/2006
«Il mercato del lavoro italiano? In apparenza ci sono meno disuguaglianze che in quello americano, ma nella sostanza è vero il contrario». James Heckman, premio Nobel per l'economia nel 2000, insegna all'università di Chicago. L'abbiamo incontrato ai Telecom Colloquia di Venezia, invitato da Telecom Italia per discutere di «Utopie sostenibili» con altri tre premi Nobel. Heckman ha studiato approfonditamente la realtà del lavoro e della formazione in Italia. La sua tesi sembra paradossale. In Italia, rispetto agli Stati Uniti, i lavoratori sono più protetti, sia dal punto di vista salariale che da quello normativo. Perché, allora, soffrirebbero di maggiori disuguaglianze? «Effettivamente in Italia è difficile ridurre i minimi salariali contrattati dai sindacati ed è quasi impossibile attenuare i sistemi di protezione dell'occupazione. Ciò significa che sono state abolite le disuguaglianze? La risposta è affermativa solo se si misura la disuguaglianza in un punto singolo del tempo, se si scatta un'istantanea. Ma se andiamo a valutare la "quantità di disuguaglianza" che si accumula in tutta la vita del lavoratore, allora le cose cambiano: per la maggioranza è difficile salire la scala salariale, cambiare di status e fare significativi salti di carriera. Mi riferisco a un'indagine che, tra l'altro, è stata condotta nell'area milanese, non in una zona debole del Sud. In questo senso la "disuguaglianza per la vita" è più alta in Italia che negli Usa». Lei invoca un sistema salariale più flessibile e un mercato del lavoro meno ingessato. Eppure l'Italia ha da tempo introdotto lavoro interinale e contratti non standard. E' stata una scelta corretta? «No, ritengo che il sistema sia dannoso: nel breve termine il lavoro temporaneo contribuisce a ridurre il tasso di disoccupazione, ma contemporaneamente crea dei lavori "dead end", a vicolo cieco. Primo perché la percentuale di crescita salariale di chi lavora con contratti a termine è ridottissima, e poi perché le persone restano intrappolate nel livello basso del mercato. Così si crea una sottoclasse permanente di esclusi dal lavoro che "tira". Tanto più che se un'azienda vuole assumere un lavoratore solo per breve tempo, perché mai dovrebbe spendere denaro per formarlo?» In Italia, però, sembra andare meglio, perché le agenzie interinali devono versare il 4% del monte salari proprio per la formazione dei lavoratori. «Secondo lei quanto ci vuole per imparare a friggere un hamburger? Per la McDonald's, evidentemente, sei mesi, visto che in America ha avuto finanziamenti per corsi di formazione di quella durata. Un po' troppo, credo, anche se l'azienda diceva di voler insegnare a fare "hamburger eccellenti". Ho citato il caso per spiegare che, anche se ci sono finanziamenti alla formazione, risulta molto difficile controllare come vengono realizzati i corsi, quale sia la loro vera sostanza. In definitiva, piuttosto che scegliere il lavoro a tempo è meglio creare mercati con salari flessibili, così che chi entra per la prima volta nel lavoro possa poi, nel corso della carriera, accedere a livelli salariali più elevati». In Italia la questione salariale tocca tutti i livelli. Per esempio i manager sono molto restii ad accettare retribuzioni fortemente legate alle performance. Cosa ne pensa? «Da studi fatti risulta che, quando c'è un metodo per misurare le capacità, i mediocri rifiutano sempre il sistema di incentivi, mentre gli eccellenti sono contenti di averlo. Credo quindi che si dovrebbe risolvere il problema dando ai manager la possibilità di scegliere: chi ha poco talento accetta di essere pagato con un salario medio, rapportato ai livelli medi di produttività del suo settore». Per arrivare all'eccellenza bisogna però anche partire da una formazione di qualità. Cosa pensa del sistema italiano? «Il vostro problema è che mancano completamente incentivi per insegnanti e ricercatori, così che i migliori emigrano. Fare affidamento solo sullo Stato lega le mani alle università, che devono invece puntare ad altre fonti di entrate, ai capitali privati e al finanziamento delle aziende. E ciò vale sia per le università private che per quelle pubbliche. E' il caso degli Usa, dove università statali come quelle di Berkeley, del Michigan, del Wisconsin, o la Ucla di Los Angeles, raccolgono ciascuna fondi per diversi miliardi di dollari l'anno e si piazzano tra le scuole d'eccellenza. Insomma, la competizione tra pubblico e privato è fondamentale per migliorare la qualità dell'istruzione.
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