Lo scrittore Edoardo Albinati parla del suo
lavoro come docente
"Basta con la "spendibilità del sapere", lavoriamo per la qualità"
L'usura fisica dell'insegnante
"Un attore pagato troppo poco".
Cristina Nadotti,
la Repubblica del
5 ottobre 2005
Edoardo Albinati, scrittore, poeta e narratore,
è uno dei tanti docenti in trincea, uno dei tanti che tornano a casa
senza voce, che ogni giorno si devono inventare un'interpretazione da
attore per fare in modo che l'attenzione non cali in classe, uno dei
tanti che scavano in fondo a sé stessi per trovare, dopo anni, le
motivazioni per fare il loro lavoro.
Dal 1994 insegna lettere nel carcere di Rebibbia, ma pur
nell'eccezionalità della sua scuola è una voce della categoria.
Com'è il lavoro dell'insegnante?
"Io lo vedo molto come un lavoro fisico, che sfinisce. Stare in classe
è faticoso, dal liceo "bene" all'istituto tecnico di borgata gli
insegnanti, se sono davvero tali, ogni giorno eseguono delle
"performance attoriali". Immaginate un interprete teatrale che ogni
sera salga su un palcoscenico, quanto impiega per ridursi a pezzi?
Alla fine c'è proprio il logorio fisico, e per tutto questo si
ricevono due soldi".
La retribuzione, un punto centrale.
"In termini economici gli insegnanti sono una categoria depressa. Non
vorrei suonare scettico, ma bisogna anche ammettere che è un serpente
che si morde la coda. Sono molti coloro che dicono "io do per quello
che mi viene dato" e che non fanno della qualità l'essenza del loro
lavoro. Del resto le uniche motivazioni per fare questo mestiere sono
personali e c'è molta gente che non lo sceglie, ci finisce per caso.
Una volta che ti ritrovi a insegnare, o hai qualcosa da dare
umanamente, oppure sei perdente in partenza".
Sembra un mondo di solitari depressi.
"Solo gli studenti possono aiutare un insegnante. La sua famiglia non
ne può più, i colleghi, se non ostacolano, non aiutano e le famiglie
sono il vero male della scuola, perché la caricano di responsabilità
che non le competono".
Eppure ogni volta che un adolescente è
coinvolto in un fatto di cronaca la scuola è tirata in ballo.
"Appunto, non si capisce perché la scuola deve accorgersi del disagio
dei ragazzi e la famiglia no. Ho quattro figli, frequentano dalle
scuole elementari all'università, ho un buon punto di osservazione
della situazione e ogni volta resto sbalordito da ciò che i genitori
pretendono dagli insegnanti. La scuola fa fatica a dare un'istruzione
accettabile, figuriamoci se può farsi carico di tutti i problemi
dell'educazione".
Ma insomma, cosa si salva del mestiere
di insegnante?
"Il rapporto con gli studenti. Sono gli unici che possono aiutare. Ne
bastano tre o quattro in una classe che lavorino insieme a te per
tirare il gruppo. Sono vitali ed è drammatico quando se ne perde uno.
Io ho avuto un pessimo inizio di anno scolastico: uno dei miei
studenti migliori è morto d'infarto, viste le condizioni delle carceri
italiane è stato sottovalutato il suo stato di salute. Saperlo non è
stato solo un grande dolore personale, ha messo in discussione la mia
attività professionale".
Qual è la cosa che la irrita di più
quando i politici parlano di scuola?
"Non sopporto l'espressione 'spendibilità del sapere'. Passa l'idea
che tutto quel che si fa a scuola sia volto al risultato finale, abbia
valore solo per il conseguimento di un titolo, di un diploma. Non è
così, gli insegnanti devono riscattare il tempo reale della scuola,
impegnarsi in qualcosa che funzioni in quel momento, quella mattina.
E' questo che fa la differenza tra una bella lezione e una brutta e se
poi quel che si è detto e fatto serve per il futuro tanto meglio, ma
non si può pensare solo al traguardo finale".