Approvato il diploma dell'obbligo.
Il governo ratifica altri due mattoni
della riforma Moratti:
l'«alternanza scuola-lavoro» e il «diritto-dovere» all'istruzione.
Dai negozi alle imprese tutto fa «qualifica»
e serve per «competenze spendibili sul mercato del lavoro».
di M. Ba. da il
Manifesto del 25/3/2005
ROMA
Prendere il diploma lavorando nel negozio o nell'impresa di papà? Da
oggi si può. E' il governo della Casa delle libertà. E se qualcuno
pensa ancora che lo stato abbia l'obbligo di istituire scuole
pubbliche in tutto il paese (l'antico «obbligo scolastico») è fermo al
giurassico pre-Moratti. Con i due decreti legislativi approvati ieri
dal consiglio dei ministri infatti entrano in vigore due mattoni
importanti della riforma della scuola del centrodestra: sono
disciplinati sia la cosiddetta «alternanza scuola-lavoro» che la fine
dell'obbligo scolastico. Nel continuo «restyling manageriale» che da
anni imperversa sulla scuola, il terremoto linguistico e concettuale è
continuo. Per esempio, i decreti assicurano a tutti «il diritto
all'istruzione o alla formazione per almeno dodici anni o, comunque,
sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di
età». La ministra quindi annuncia trionfante alla stampa: «Abbiamo
aumentato l'obbligo scolastico fino a 18 anni». Peccato che la legge
indichi anche la vera scappatoia: «Dal compimento del 15mo anno di età
fino ai 18 anni i diplomi e le qualifiche si possono conseguire in
alternanza scuola-lavoro o con l'apprendistato».
E a cosa serve questa «alternanza»? «Ad acquisire conoscenze
spendibili nel mercato del lavoro» (Art. 1). Per capire di cosa si
tratti in concreto basta pensare a quello che il decreto non dice: nel
nuovo apprendistato (l'attuale obbliga almeno a 120 ore di scuola) non
c'è alcuna prescrizione sulla presenza in aula e il lavoro degli
adolescenti. Nell'ottica dell'autonomia inoltre il decreto demanda la
definizione di quel rapporto a «convenzioni» tra la singola scuola e
la singola impresa (oppure con associazioni, camere di commercio,
aziende agricole, enti pubblici, privati o no profit). In sostanza lo
stato non dice una parola sulle ore che un ragazzo di 15 anni deve
passare sui banchi insieme ad altri come lui. Né chiede alle aziende
di consentire ai sindacati di intervenire a tutela dei giovani
«apprendisti». Né le regioni vogliono saperne nulla, perché già dicono
che per la riforma non ci sono soldi (la conferenza unificata infatti
ha già bocciato il decreto Moratti).
Chi è allora il motore di scelte così impegnative per un ragazzo? I
genitori: è la famiglia il centro della nuova scuola à la carte, la
quale, per legge, «ha l'obiettivo della crescita e della
valorizzazione della persona umana».
Enrico Panini, Flc-Cgil, è inviperito: «L'alternanza scuola-lavoro è
un termine che raccoglie alcune delle esperienze migliori della scuola
italiana, esperienze che però duravano solo alcuni mesi ed erano state
preparate a lungo in classe, ora invece viene usato per coprire ogni
nefandezza». Furiosa anche Alba Sasso, Ds: «L'obbligo scolastico è un
compito che la Costituzione affida allo stato, non un dovere delle
famiglie o dei singoli studenti».
Già, perché nell'altro decreto approvato ieri l'obbligo della scuola
diventa un semplice «diritto-dovere» che comincia dalla prima classe
delle elementari, cioè a 6 anni. In questo modo il decreto
«ridefinisce e amplia» (così è scritto) l'articolo 34 della
Costituzione («L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni,
è obbligatoria e gratuita»). Ma è facile prevedere che le nuove
sottomodalità di scuola, familiste o imprenditoriali, saranno
scaricate sulle realtà più difficili. A vigilare il tutto ci sarà
l'immancabile ma sempre misterioso e anglofono «sistema tutoriale».
L'obiettivo, giustamente rivendicato dal ministero, è abbattere la
dispersione scolastica, una piaga che colloca l'Italia agli ultimi
posti in Europa. Peccato che la soluzione preveda che a scuola non ci
si vada più. «Lavori? Vale come se vai a scuola» tuona Alba Sasso, che
ricorda anche che il governo non ha ancora approvato il decreto
sull'istruzione secondaria.
Eppure ce ne sarebbe bisogno, di scuola e di una scuola diversa.
Secondo l'Istat (dati 2001), gli italiani analfabeti o comunque privi
di un titolo di studio sono 5.981.579, più di uno su dieci. E solo
poco più di un italiano ogni due possiede una licenza media o
elementare (26.907.758 persone). Si tratta di numeri che parlano da
soli ma che diventano tanto più drammatici se la scuola sceglie
programmaticamente di non aggredire il problema, lasciando la forbice
tra «istruiti» e non alla (ben visibile) mano del mercato. Avere o non
avere «competenze» dipende così sempre di più dal contesto
socio-culturale di ogni studente e dalla famiglia di provenienza.
Confindustria però approva: con l'alternanza scuola-lavoro «il sistema
educativo italiano diventa più europeo», dice il vicepresidente con
delega «all'education» Gianfelice Rocca. Piero Bernocchi, Cobas, parla
invece di «truffa mass mediatica della ministra», dopo i decreti di
ieri «ogni studente è autorizzato a uscire dalla scuola e a
precipitare nel buco nero dell'apprendistato in azienda, con un futuro
da precario, senza basi culturali né tutele, né pretese di alcun
tipo».
Il fatto che a commentare l'ultima iniziativa del governo intervengano
solo sindacalisti o i (pochissimi) politici più attenti (Ds, Dl o Prc)
dimostra il degrado a cui è giunto il nostro paese. Se la scuola da
oggi diventa tirocinio, insomma, pare non scandalizzare nessuno.