Il Caso del Giorno dalla parte del cittadino. di Giangiacomo Schiavi, da Il Corriere della Sera del 22/3/2005
Gentile professoressa, una voce fuori dal coro aiuta a ragionare meglio perché restituisce al mestiere di insegnante motivazioni ed entusiasmi che vorremmo sempre forti. Ma la pagina di «Corriere Scuola» di ieri non è la solita lamentazione di una categoria che da anni si sente a disagio: nell’articolo di Annachiara Sacchi, oltre alle patologie stressogene dei prof, abbiamo trovato le conferme di una crisi che investe la pubblica istruzione a Milano e nel resto d’Italia, e colpisce anche genitori e studenti. Abbiamo davanti agli occhi altre email. Una è disperata: «Trovo alunni sempre più arroganti e aggressivi, che insultano, minacciano, bestemmiano. A 40 anni ho deciso di trovarmi un altro lavoro». Firmato professor Alessandro Marino. L’altra è più sentimentale: «Insegnare è la mia passione alla vita, essere compagno del destino dei ragazzi e delle ragazze non è cosa da poco. Certo, dopo trent’anni un professore tedesco guadagna 3 mila euro, ed io no». Firmato professor Gianni Mereghetti. Lei insegna alle medie e i valori in cui crede sono gli stessi di migliaia di maestri e professori, ma è difficile negare che qualcosa si sia inceppato o debba essere aggiustato finché siamo in tempo. Una per tutti: la considerazione. Storicamente gli insegnanti non sono mai stati pagati un granché. Però potevano contare su un prestigio sociale e su un rispetto che non sviliva la loro professione. Capire perché c’è stata una graduale perdita di considerazione (siamo passati dai genitori che davano sempre ragione all’insegnante ai genitori che danno sempre ragione allo studente) è tema da approfondire, oltre questa rubrica. Alla scuola, oggi, sembrano mancare serenità ed equilibrio. Noi vorremmo sempre insegnanti capaci di prendersi cura del programma e dei nostri figli, rispettando i ruoli, i tempi e le persone. Ma in classi che arrivano anche a 28-30 alunni, con programmi continuamente rivoluzionati, tagli e dotazioni che scarseggiano, ci sembra di chiedere uno sforzo aggiuntivo. Uno sforzo che meriterebbe almeno una diversa «considerazione».
Insegno dal 1970 nelle scuole medie. Questo lavoro mi piace e mi appassiona ancora dopo 35 anni perciò mi arrabbio quando leggo luoghi comuni e ovvietà sulla scuola. Però è vero che da un po’ di tempo a questa parte piangersi addosso è un’attività molto in voga tra gli insegnanti stessi, che sottolineano sempre e soltanto gli aspetti negativi del loro lavoro, dando l’avvio a una serie di critiche che poi molti personaggi extrascolastici entusiasticamente avallano. Dice, per esempio, una docente che «agli insegnanti vengono richieste sempre più competenze, dall’educazione stradale al computer; non possiamo essere tuttologi». Vorrei sapere quale categoria di lavoratori può esimersi dal fare i conti con le nuove realtà, dagli strumenti tecnologici (c’è qualche luogo di lavoro dove non si usi il computer?), all’afflusso degli stranieri (come ci si regola negli uffici pubblici o negli ospedali?), all’aggiornamento (chi di noi andrebbe mai da un dentista che non avesse una moderna attrezzatura?). Credo che sarebbe cosa buona e giusta cominciare a ribaltare questa deleteria abitudine mentale, considerando noi insegnanti per primi il nostro lavoro serio, importante, rispettabile; dimostrando con la nostra pratica quotidiana che uno stipendio modesto non fa un lavoro modesto, a meno che non si condivida l’idea dilagante che carriera, immagine, soldi, successo e compagnia bella sono sinonimi di professionalità e di qualità del lavoro. Cecilia Gerosa. |