Storie precarie. Roberta, insegnante co.co.co . «250 euro al mese... e un figlio te lo scordi» Storie precarie. Aldo Nove continua la sua ricognizione delle realtà di lavoro e di vita nel nuovo mercato flessibile. Parla Roberta, quarant'anni, insegnante senza contratto in diverse scuole e giornalista in un'agenzia di donne per passione «Stritolata dalla mia vita al dettaglio. La maternità è un lusso» di Aldo Nove, da Liberazione del 23/3/2005
Parla con pacatezza, la mia interlocutrice. Nella sua voce ci sono l'orgoglio di una storia che ha da sempre cercato di dare un senso all'esistenza nella sua integrità, nel privato e nel sociale. Continuando a testimoniare valori che per troppi, nella nostra generazione, sono vaghi, lontani. Anche per necessità. Per impotenza reale. Eppure esistono persone incapaci di smettere di lottare. Come trapela da questa conversazione. Incominciamo? Incominciamo pure. Allora, mi chiamo Roberta, ho quarant'anni, vivo a Roma, guadagno 250 euro al mese… 250 euro al mese? Lavoro in una scuola paritaria. Una scuola di studenti lavoratori, aperta dalle 18 alle 22.30. Duecentocinquanta euro è quanto ho guadagnato l'ultimo mese. E' quasi nulla. Vado avanti in questo lavoro quasi per inerzia, per fare punteggio. Ho un contratto ad ore, un ex co. co. co. che però ancora è rimasto tale, che dovrebbe cambiare e resta così, nel caos ministeriale. Su quaranta docenti che lavorano nella mia scuola venti sono in regola, gli altri lavorano in nero. Com'è possibile? E' una scuola potente, e quindi ha protezioni e non ha subito ispezioni… A parte questa esperienza? Ho riversato le altre energie, assieme ad una mia amica, mettendo in piedi un'agenzia di stampa di donne, per donne, che si chiama Delta news. Abbiamo una pagina web che aggiorniamo ogni notte. Questo è il mio impegno più gratificante. Quanto guadagni, dall'agenzia? In termini economici, nulla! Adesso abbiamo contattato un account che sta cercando di migliorare la pagina web per vendere l'agenzia come prodotto. Cosa altro fai, per vivere? Per ora, insegno anche in un corso regionale, di pomeriggio, un pomeriggio a settimana. Però è un impegno per un numero preciso di ore, 50, che inevitabilmente finirà. Poi ogni quindici giorni collaboro con un'altra scuola, dove abbiamo ideato un corso di giornalismo per ragazzi. Sono attività che in realtà mi piacciono tutte, ma essendo sporadiche, pagate in modo irregolare e poco, non mi danno nessuna forma di sicurezza… Come arrivi, a fine mese? Quando non ce la faccio proprio, mi aiuta mia madre. E' difficile, vivere così. Cerchi di pensare che siamo in tanti, a vivere in queste condizioni, ma il pensiero non è sufficiente a combattere l'ansia che ti dà una precarietà così forte. E quando investi la maggior parte delle tue energie nell'organizzazione dell'esistenza quotidiana è difficile, è molto difficile immaginarsi una progettualità. Anche le passioni, anche l'amore per quello che fai sono duri da sostenere. Con l'ansia della sopravvivenza si possono fare poche cose… Purtroppo è così. E quando, come me, sei cresciuta con la passione per la politica, ti trovi a doverla abbandonare perché devi pensare solo a sopravvivere. E' una continua aggressione della realtà nei tuoi confronti. Ti rendi conto giorno per giorno che la tua laurea, i tuoi decenni di esperienza non hanno nessun valore contrattuale, che sul piano del lavoro non sei niente. A quarant'anni poi cominciano i primi bilanci. Magari pensi «Ok, adesso posso lavorare anche sedici ore al giorno per pochi soldi. Lo faccio perché mi piace, ma fra qualche anno non ce la farò più fisicamente». E allora inizi a pensare, a logorarti… Come ti immagini, tra dieci anni? E' una domanda difficilissima. Non riesco a immaginarmi con qualche sicurezza. Mi auguro di trovarmi in una situazione un po' meno dolorosa da organizzare. Quello che so è che tra dieci anni non avrò la stessa forza che ho oggi per gestire tutto questo. Già adesso ci sono dei momenti in cui sono molto, molto stanca… Hai accennato all'impegno politico, all'agenzia web… E poi le difficoltà del quotidiano… hai mai pensato di mollare tutto? Sì, certo, ho pensato di mollare tutto. E' una stanchezza rabbiosa che talvolta ti prende, che ti dice di andartene. Dove? Dove non mi devo sbattere quindici ore al giorno per pagare l'affitto. Lontano da una città invivibile come Roma. Ho pensato di andarmene anche dall'Italia, facendo richiesta di insegnamento all'estero, ma non essendo di ruolo è molto difficile. In questo momento, se fossi in grado di farlo, me ne andrei ovunque potessi pagare un quinto dell'affitto che pago. Questa città, che ho scelto vent'anni fa quando dalla Calabria ci sono venuta per fare l'università, l'ho sempre amata. Ma ora viverci è diventato davvero difficile. Un tempo, mi pare di capire, non era così… Sono venuta qua a studiare, e qua ho deciso di rimanere. Con grande investimento di passione, con entusiasmi. Dando tutta me stessa. Tutto quello che ho costruito è qui. I miei amici, le relazioni. Ma il tempo di una giornata, con i suoi problemi immediati, è talmente predominante che tutto quello che hai costruito in decenni poi non riesci a vivertelo, giorno per giorno. Non ce la fai. Esco alle dieci e mezza di sera da scuola, non vedo gli amici, non vado al cinema… Poi arriva il fine settimana, quando cerchi di ricucire i fili, ma se sei distrutta dalla fatica… Torniamo per un momento ancora più indietro, ai tempi del liceo… L'ho fatto a Cosenza. Lì ho iniziato a frequentare i primi collettivi femministi, a 14 anni, in seconda liceo. Ricordo che eravamo vicino all'8 marzo e io, completamente digiuna di esperienze politiche, andai a una manifestazione. Ne rimasi affascinata. A casa mia il dibattito politico era molto acceso. Mia madre era una convinta democristiana, mio padre attivista del Pdup. Non si discuteva, si litigava. Comunque mio padre, pur essendo lui impegnato politicamente, non voleva che mi interessassi di politica, perché sottraevo tempo allo studio. Se sapeva che dovevo partecipare a un collettivo mi rinchiudeva in stanza… Mentre mio fratello, più grande di me di cinque anni, di politica non si interessava. Qual era, allora, il tuo sogno? In realtà, sognavo di scappare via dalla provincia, e fare la scrittrice. Volevo scrivere romanzi. Poi per fortuna non l'ho fatto… Al di là dell'impegno politico, a Cosenza, l'unico mio pensiero era abbandonare la provincia, e venire a Roma a fare l'università. Com'è stato l'impatto con la metropoli? Entusiasmante quanto impegnativo. Erano anni molto vivaci. Cominciai a frequentare gruppi di donne, partecipando a un giornale del movimento femminista. Una esperienza bella. Formativa. La politica mi ha dato tanto. Oggi, la politica, cosa ti dà? La complicazione della vita privata, il problema della sopravvivenza, come ti dicevo già prima, ti inaridiscono. Mi rendo conto che non riesco a essere attenta a quello che succede. Bisogna stabilire un limite, fare delle scelte… Ad esempio? Ad esempio… la maternità. Sono andata alla manifestazione per la liberazione di Giuliana Sgrena e delle mie amiche, con figli piccoli, mi hanno detto che invidiavano il fatto di averlo potuto fare, di essere potuta scendere in piazza senza la preoccupazione di un bambino piccolo da accudire, mentre io invidiavo loro il fatto che avessero un figlio di cui occuparsi! C'è una situazione di malessere generale, di senso quasi tragico, di uno smacco, nonostante tutte le battaglie che abbiamo condotto… Pensi che le donne paghino maggiormente questo malessere? Penso di sì. Al di là dei piccoli privilegi astratti ottenuti nel tempo, che a volte non sono astratti ma anche reali, lo vivo e vedo nell'esperienza diretta. Le donne fanno più fatica. In una condizione di precariato te lo scordi, di mettere al mondo un figlio, questa è la verità. E chi i figli li ha fatti, si trova magari a rendere conto ai propri bambini delle proprie nevrosi, delle proprie insicurezze. Siamo tutte un po' raffazzonate… C'è una parola che forse riassume tutto… Qual è? Inadeguatezza. Cioè? Il senso di non riuscire mai a far fronte alle cose nel modo migliore, con serenità, con il necessario distacco. Credo che sia un problema di tutti. Ma da parte delle donne significa anche la responsabilità di non potere essere una madre come vorresti. Allora provi rabbia, tristezza. E ogni tentativo di creare delle cose diverse fallisce. Ti senti sola. Ci sentiamo tutti soli. Torniamo a te, agli anni dell'università. La mia famiglia non è mai stata benestante, quindi ho sempre lavorato e studiato nello stesso tempo. Sempre lavoretti precari. Anche per questo motivo ci ho messo un sacco di tempo a laurearmi. Dopo la laurea? Avevo dato vita a una piccola agenzia, lavoravo in una scuola privata, sempre con l'aiuto di mia madre. Tua madre, oggi, cosa pensa di te? E' angosciatissima. E' una persona molto apprensiva, ed è ovviamente molto preoccupata della mia precarietà. Ho sempre disatteso le sue aspettative. E lei ha sempre cercato, comunque, di non giudicarmi. Mi aiuta. Ma è molto tesa. Anche perché a questo punto, alla mia età, dovrei essere io, a aiutare lei. C'è stato un momento in cui hai sentito che le cose erano cambiate per sempre? Negli ultimi due anni. Ho incominciato sempre più a pensare di ritornare a casa e non è facile, quando in tutti i modi hai cercato di costruire qualcosa, per decenni… Vent'anni non sono nulla. Continuo ad avere legami affettivi forti, a Cosenza. Quest'autunno ho pensato seriamente di chiudere tutto e tornare là. Ma il problema è il lavoro. A Cosenza è peggio che a Roma... Molto peggio. Perché qui facendo 44 lavori contemporaneamente e lavorando 15 ore al giorno sopravvivo, mentre in Calabria il lavoro non esiste proprio. Ho pensato anche che era un peccato mio d'orgoglio, il rifiuto di tornare indietro, ma più che orgoglio è proprio la realtà. In Calabria lavoro non ce n'è. In realtà, più che tornare, era il desiderio di potermi fermare, di poter riposare a spingermi al pensiero del ritorno… Pensiero pienamente legittimo. Legittimo. Ne ho un gran bisogno. Ma non me lo posso permettere. Se mi fermo adesso che succede? In realtà, la fuga è dal quotidiano. Ma il quotidiano è dappertutto. Se avessi i soldi per farlo lo farei. Ma sono così stritolata dal circuito della vita al dettaglio che non riesco ad alzare il tiro delle previsioni per il mio futuro… Da qualche anno a questa parte penso ad avere un figlio, ma non lo posso fare, un figlio. Non posso proprio. Perché? Perché non sono autonoma. Non è solo un fatto di soldi. Trent'anni fa facevi un figlio e anche senza soldi c'era una struttura che ti reggeva in un ruolo. Adesso sei sola. Completamente sola. E' una sensazione di vuoto pneumatico. Anche solo vent'anni fa non era così. Oggi, fare un figlio è un lusso. Un lusso inaudito. Le statistiche dicono che ci vogliono 230.000 euro per far crescere un bambino. E un'altra tristezza ancora si aggiunge a tutto questo. Quale? Sentire che il desiderio di avere un bambino, oggi, è semplicemente illegittimo. Perché tutti te lo ripetono. Perché tu stessa hai interiorizzato questa cosa. Così alla fine non capisci neppure più quali sono i tuoi desideri. Ti senti irrisolta emotivamente. Ti senti una bambina di 40 anni. Non credo che anche solo una generazione fa le cose fossero così. A questo punto mi viene da farti una domanda alla Marzullo, ma credo che dopo questa conversazione abbia senso: cos'è la felicità, per te? E' la possibilità di prendersi il tempo di capire. Di prendersi spazio per comprendere che cosa sta succedendo senza correre per sopravvivere. Significa potermi fermare per farmi una domanda sulla mia esistenza che non sia schiacciata dal peso condizionante della quotidianità che deforma tutto, che ingloba tutto… Ancora, e sempre, la quotidianità… Sì, le cose scorrono e io non riesco a collocarmi in una posizione di senso. Il che non vuol dire che ciò che faccio non mi piaccia. Ma ogni tanto arriva la domandina cattiva: «Che senso ha tutto questo? Come ti collochi nello spazio e nel tempo, come ti collochi qui?». Ecco, la felicità, per me, adesso, è trovare le condizioni per articolare una risposta a questa domanda che si fa sempre più pressante.
In questo quotidiano, se le condizioni per trovare questa risposta non ci sono, come si fronteggiano le sue pressioni? In tanti modi. Senz'altro ricorrendo all'autoironia. E' un'arma fortissima. Riuscirsi a non prendersi troppo, sempre sul serio è una forma di salvezza empirica. Funziona. Ma alla fine ci vuole un equilibrio notevole. Sei sempre stata di sinistra… Sì. Cosa vuol dire, oggi, essere di sinistra? Accogliere con estremo rispetto la domanda che sorge non solo nel tuo immediato circondario ma dappertutto, nel mondo intero, di giustizia, di rispetto per la vita umana. Per me essere di sinistra significa anche che un cambiamento è possibile. Ancora. Malgrado tutto. Dall'altra parte, a destra, oggi cosa c'è? Il cinismo. L'ipocrisia dei valori. Della stessa parola "valore". Mi fa orrore pensare che Roma sia tappezzata di manifesti che inneggiano all'idea della "patria". E' difficile attivare un antidoto a questo malcostume, a questa volgarità. Tu insegni. Come li vedi i ragazzi di oggi? Smarriti. Condizionati da una semplificazione della realtà che è difficile da reggere perché non è la verità, e ciò crea ansia. Allora come insegnante inevitabilmente mi chiedo: «Come inserire dei margini di dubbio, di criticità in delle persone che sono già terrorizzate?» Oggi i ragazzi sono aggressivi perché hanno bisogno di un riconoscimento umano, affettivo. Per collocarsi nel mondo senza terrore. Per pensare appunto che un cambiamento sia possibile. |