Un percorso liceale per… incompetenti?!

Ovvero, la riscossa dei licealclassicisti!

di Maurizio Tiriticco, da ScuolaOggi del 16/5/2005

 

Il classico è sempre un’altra cosa!

Dal puntuale articolo Il classico, un passaporto universale (in “Azienda Scuola”, l’inserto di “Italia Oggi” dello scorso 10 maggio) di Giorgio Sciotto, ho evinto in quale imperdonabile svista sono caduto nella pur attenta lettura che avevo condotto della ennesima bozza sul secondo ciclo del 3 maggio nella mia nota Verso un liceo classico… troppo dignitoso!!!

Sciotto ci fa notare che, mentre per ciascuno dei sette licei non classici viene reiterata puntualmente la dizione “il percorso… fornisce allo studente le conoscenze, le abilità e le competenze necessarie per…”, alla quale segue l’indicazione delle specificità culturali che ciascuno di sette percorsi persegue, quando andiamo a leggere il comma 1 dell’artico 5 relativo al liceo classico, di competenze, abilità e competenze non si fa alcuna parola! Si afferma letteralmente che “il percorso del liceo classico approfondisce la cultura liceale dal punto di vista della civiltà classica e delle conoscenze linguistiche, storiche e filosofiche fornendo un rigore metodologico e una dotazione di contenuti e di sensibilità all’interno di un quadro culturale di alto livello e di attenzione ai lavori anche estetici che offra gli strumenti necessari per l’accesso qualificato ad ogni facoltà universitaria…”

Si tratta di una affermazione che tradisce un retropensiero non condivisibile e su cui occorre una seria riflessione. Viene operata una differenziazione fuori dalla realtà della cultura contemporanea e dalla concezione stessa dello stretto legame che lega oggi educazione, istruzione, formazione, lavoro, legame che tanto faticosamente abbiamo maturato del corso degli ultimi anni!

Con quel comma si fa un passo indietro gigantesco sotto il profilo educativo e culturale. Ma, andiamo con ordine e facciamo qualche passo indietro.

 

La legge 425: una riforma… senza l’Europa!

Il legislatore con la legge 425/97, istitutiva dei nuovi esami di Stato, sottolineava con forza la necessità di superaere le finalità e la logica dell’esame di Stato varato molti anni prima – in via sperimentale, va ricordato! – con la legge 119/69. All’articolo 5 di detta legge si sosteneva che “l’esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato”. Con la legge 425/97, invece, si adottarono principi del tutto nuovi, coerenti sia con quanto si era verificato negli ultimi anni nel mondo delle conoscenze e del lavoro sia con le nuove indicazioni che venivano dall’Unione europea.

Nel ’93 era apparso Crescita, competitività, occupazione, di Jacques Delors; nel ’95 il Libro Bianco di Cresson e Flyn, Insegnare e apprendere: verso la società; conoscitiva. Nel ’96 a cura del Ceri-Ocse venne pubblicato Apprendere a tutte le età: le politiche educative e formative per il XXI secolo. Ed ancora nel ’96 Jacques Delors editò il rapporto Unesco Learning: the Treasure within, in cui venivano individuati gli ormai famosi quattro pilastri dell’educazione nel nuovo millennio:

1) imparare a conoscere;

2) imparare a fare, e si sottolineava la necessità del passaggio dal concetto di abilità a quello di competenza, in forza della progressiva dematerializzazione del lavoro e dello sviluppo dei servizi;

3) imparare a vivere insieme, a muoversi alla scoperta dell’altro e tendere tutti verso obiettivi comuni;

4) imparare ad essere, come l’impresa più difficile in una società complessa, globalizzata, ma anche variamente frammentata.

E va anche ricordato che nel ’91 con il Trattato di Maastricht l’istruzione – in senso lato – fu assunta come una delle nuove frontiere dell’Unione. Quell’Unione, che dai Trattati di Roma del ’57, quando venne istituita la Comunità Economica Europea – sottolineo economica – aveva assunto il problema della sola formazione professionale come una delle questioni centrali, in quanto legata allo sviluppo economico dell’Europa dei Sei, quindi all’occupazione e al lavoro, nel ’91 compì un enorme balzo in avanti. Così, si cominciò a lavorare, a livello di Commissione e dei singoli Governi, a una prospettiva del tutto nuova, quella della Dimensione Europea dell’Educazione, dei sistemi scolastici dei diversi Paesi e delle innovazioni che occorreva apportarvi in una prospettiva unitaria, pur sempre nel pieno rispetto delle singole specificità.

Nel nostro Paese, con la riforma degli esami di Stato, si prese atto dei nuovi indirizzi che gli studi secondari avrebbero dovuto assumere, e il legislatore sancì che un esame che accertava la maturità di un giovane non aveva più senso a fronte delle nuove esigenze culturali e professionali emergenti. E scrisse che i nuovi esami devono avere “come fine la verifica della preparazione di ciascun candidato in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo di studi (art. 1, c. 1)” e che la certificazione rilasciata deve “dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea (art. 6)”. Quindi l’innovazione forte consisteva proprio nel fatto che non doveva più essere centrale nell’esame di Stato il concetto di maturità, ma quello di competenza.

 

Ciò che la legge fece il regolamento disfece!

Com’è noto, ogni legge necessita di un regolamento attuativo: la legge la fa il Parlamento, il regolamento lo fa l’amministrazione. La legge venne varata nel dicembre del ’97 e l’amministrazione dell’allora Mpi occupò tutti i primi mesi del ’98 a scrivere il regolamento. La questione centrale era proprio quella di dare corpo alle indicazioni della legge, di definire, cioè, in quali termini e con quali modalità si dovesse dar luogo ad una svolta che non era affatto di poco conto: tra i tanti nuovi nodi, due erano quelli cruciali:

1) il passaggio dalla valutazione decimale (i sessantesimi della maturità, di fatto, erano i dieci voti assegnati a ciascuno dei sei commissari) alla misurazione per punteggi;

2) il passaggio dalla “valutazione globale della personalità del candidato” alla certificazione delle competenze.

Ricordo tutti i problemi di quei mesi di intenso lavoro: molti consideravano quanto fosse difficile cambiare la terminalità di un percorso quando tutto il quinquennio precedente non aveva subito alcuna seria modifica strutturale; e quanto fosse difficile modificare negli studenti e negli stessi docenti comportamenti e atteggiamenti che nel corso di un trentennio (dal ’69 al ’97) si erano profondamente radicati e non potevano essere cambiati né facilmente né nei tempi brevi.

L’amministrazione era ancora strutturata in Direzioni generali, e l’Istruzione secondaria superiore faceva capo a tre Direzioni, la Classica, la Tecnica e la Professionale. A fronte dell’innovazione, la Tecnica e la Professionale dimostrarono un’ampia disponibilità, in quanto nel corso degli anni, in forza delle sperimentazioni assistite, del Progetto 92, dell’Area di progetto, della Terza area, dei Progetti europei et al. si erano già avviate verso attente riletture dei programmi di studio e delle loro finalità formative. A monte ed a conforto c’era anche tutta la lezione dell’Isfol che sulle competenze dava preziosi suggerimenti, teorici ed operativi. E si affacciava anche la lezione del Cede che del nuovo esame si sarebbe assunta una onerosa responsabilità in fatto di assistenza e consulenza. Anche per quanto riguarda la pratica dei punteggi e delle verifiche, vi era già una interessante esperienza in ordine a prove strutturate e semistrutturate. Per quelle due Direzioni ragionare in termini di competenze non era un fatto assolutamente nuovo. Ciò, tuttavia, non significava affatto che la svolta verso un esame tutto centrato sulle competenze fosse una operazione di routine!

 

La resistenza all’innovazione

Le maggiori resistenze provenivano dalla Direzione classica, ed era pressoché ovvio: la tradizione gentiliana non era stata mai messa in seria discussione, e ad alcuni non sembrava affatto facile che i saperi in quanto teorizzazioni di alto profilo potessero piegarsi a competenze, in dimensione di saper fare. Per taluni non era facile accettare che una versione dal greco all’italiano od una relazione sulla Ragion pura o l’analisi di un testo poetico costituissero competenze. Era ancora forte una visione tardotayloristica, per cui ciò che è competenza sarebbe solo diretta pratica manuale. Molti osservavano, invece, che c’è la competenza di un chirurgo come quella di un meccanico, quella di un giudice come quella di un cancelliere, quella di un architetto come quella di un cuoco o di un acconciatore! Non c’è atto professionale – a qualsiasi livello di responsabilità o di connotazione sociale – che non richieda una competenza!
Non fu affatto facile trovare mediazioni tra posizioni tanto distanti. Molti volevano che nel regolamento si dessero definizioni certe ed univoche dei tre concetti di conoscenza, competenza e capacità. Ma ogni proposta di testo creava mille problemi! E si aggiungeva anche il fatto che la stessa letteratura specialistica dava – e dà tuttora – definizioni diverse – come è giusto che sia – di concetti che indubbiamente sono di una certa complessità. Il problema, comunque, era quello di fare una scelta coerente e che desse indicazioni chiare alle scuole.

Tale scelta non si fece o non si ebbe il coraggio di farla! Così nel regolamento (dpr 323, del luglio del ’98) si giunse ad una soluzione assolutamente minimale. Il comma 3 dell’articolo 1 così recita: “L’analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato tendono ad accertare le conoscenze generali e specifiche, le competenze in quanto possesso di abilità, anche di carattere applicativo, e le capacità elaborative, logiche e critiche acquisite”. Era ben poca cosa sia a fronte delle attese che molti nutrivano sia in ordine alla letteratura dalla quale si poteva senz’altro attingere in modo più chiaro e netto.

Ma vi era un’altra questione, per nulla di poco conto: la definizione di un modello di diploma che, come la legge 425/97 prescriveva ed abbiamo ricordato, doveva “dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”.

Nell’articolo 13 del regolamento leggiamo che “la certificazione rilasciata …attesta… le competenze, le conoscenze e le capacità anche professionali acquisite”, ma sul modello allegato (si tratta del modello 450/98) manca assolutamente lo spazio perché queste siano debitamente certificate. Nel modello figurano l’indirizzo e la durata del corso di studi, la votazione complessiva ottenuta (in effetti, si tratta della somma dei punteggi attribuiti alle prove!) le materie di insegnamento con l’indicazione della durata oraria complessiva, come recita il citato articolo 13, ma manca proprio lo spazio per quella certificazione della competenze che avrebbe dovuto essere – e dovrebbe esserlo tuttora! – il punto forte e innovativo dell’esame di Stato!

Ma le toppe al maltolto non mancarono e al danno si aggiunse la beffa, anzi due beffe:

1) “I modelli delle certificazioni integrative del diploma hanno carattere sperimentale e si intendono adottati limitatamente agli anni scolastici 1998/99 e 1999/2000” (comma 2 dell’articolo 3 del dm 450/98)… e la sperimentazione a tutt’oggi continuaaaaaaaa… ;

2) come sostitutivo della dovuta, ma mancata certificazione, vennero inserite due righe come spazio per “ulteriori specificazioni valutative della Commissione con riferimento anche a prove sostenute con esito particolarmente positivo”, specificazioni che, anche quando annotate, nulla hanno a che vedere con una circostanziata certificazione.

 

Le competenze… queste sconosciute!

Per tutte queste ragioni, a tutt’oggi per la nostra scuola secondaria di secondo grado la certificazione delle competenze è ancora al di là da venire! E quale migliore occasione per una amministrazione che alle competenze non ha mai creduto né vuole credere, perché… è roba da formazione professionale, che tornare indietro nel tempo e restaurare almeno per il liceo, pardon, percorso liceale classico quella “severità” e “serietà” degli studi che gli sono sa sempre sacrosantamente, gentilianamente dovute? Vuoi mettere una bella “dotazione di contenuti e di sensibilità” a confronto con quella certificazione di competenze fatta solo per percorsi per vili meccanici? Altro che pari dignità!

E così i giovani percorrenti classici avranno tutto il tempo per pensare, ragionare, arzigogolare, filosofeggiare, sensibilizzarsi ai lavori di alto livello, anche estetici perbacco! Questa crema della nostra intellettualità non ha bisogno di competenze.

Perché è l’in-competenza il vero passaporto per ogni facoltà universitaria!