Classi da 31 allievi

didatticamente folli.

 di Edgardo Rossi, da La Stampa  del 27/7/2005

 

Le riflessioni espresse domenica 24 luglio nella rubrica «Posso sbagliarmi» portano automaticamente ad esprimerne altre. Ad esempio è didatticamente assurdo formare classi di 31 alunni. In una classe devono collimare le fasi della spiegazione con quelle delle interrogazioni, le fasi della sperimentazione con quelle delle verifiche, bisogna lasciare spazio ai dialoghi, ai confronti, alle ricerche individuali, bisogna affrontare anche problemi personali non sempre di facile gestione e bisogna riuscire a trovare il tempo per seguire tutti gli alunni, non solo i più capaci.

Bisogna poi considerare che spesso in un gruppo classe ci sono ragazzi con problemi di preparazione, di sviluppo, di famiglia, eccetera (la dove uso eccetera per evitare un lungo elenco di problematiche). La Scuola dovrebbe nascere intorno alle esigenze degli studenti, ovvero persone in crescita naturalmente portate alla ricerca di stimoli e modelli, e le persone non sono degli oggetti, per tali motivi non è accettabile che le classi vengano costruite in base a dei numeri solo per abbassare i costi, ovvero la razionalizzazione a discapito della qualità.

In un Paese civile la scuola è un luogo di formazione, e la sua resa non è stimata con i numeri del bilancio aziendale, perché la formazione non è valutabile in euro ma in competenze acquisite, in conoscenze apprese, in capacità ampliate. Pensare che si possa fare una classe prima di 31 alunni perché tanto qualcuno verrà bocciato e quindi in seconda saranno di meno e così via è una scelta didatticamente scorretta, sarebbe più opportuno pensare a due prime che diventeranno due seconde perché all’interno di quelle classi si lavorerà al massimo delle possibilità portando la preparazione di tutti gli allievi al massimo livello possibile, si avranno quindi due prime dove si cercherà anche di indirizzare e correggere i vari percorsi scolastici qualora all’interno di essi ci fossero state delle scelte errate.

Un progetto non dovrebbe mai partire con previsioni negative, pensare in prospettiva non è per forza negare. Il biennio dovrebbe servire anche ad indirizzare i ragazzi verso il corso a loro più congeniale o la cosiddetta «passerella» è una parola usata per riempirsi la bocca. Certo perché le cose funzionino ci vorrebbero più investimenti, ci vorrebbero più strutture, ci vorrebbero insegnanti preparati e motivati, famiglie più attente alla vita scolastica, ci vorrebbero ambienti dove sia piacevole trascorrere il tempo, ci vorrebbe il coraggio di investire seriamente nella Pubblica Istruzione. La realtà attuale è che spesso per molte attività mancano i soldi, il tempo e lo spazio, e allora bisogna inventarsi tutto, cercando sponsor, facendosi ospitare, scontrandosi con regole spesso punitive.

Se poi in certe specializzazioni gli iscritti latitano si deve automaticamente procedere alla chiusura? E se un corso (ad esempio gemmologia) è legato alla realtà economica di un luogo si cerca di capire cosa sta succedendo per cercare di rilanciarlo? O la presunta collaborazione tra realtà economiche e scuole sono belle parole usate nei proclami di rinnovamento della ormai «vecchia scuola»?

La lotta per conservare i corsi non è solo una lotta per i posti è anche una lotta per cercare di creare una scuola migliore, perché forse molti non se ne sono ancora accorti ma la scuola è già cambiata (e non in meglio), altri tagli stanno per arrivare e la futura riforma (già dietro l’angolo) creerà ulteriori impoverimenti culturali, dividendo i corsi tra Licei (statali) e Istituti Professionali (regionali), appiattendo di fatto la preparazione. Non è un pericolo da poco.

Edgardo Rossi, Alessandria