IL RACCONTO. «Io, prof stagionale da 25 anni». Cinquant’anni, architetto, marito e fratello di insegnanti, ha superato otto concorsi: «E anche stavolta non riuscirò a entrare di ruolo» . di Silvia Mastrantonio da La Nazione del 26 giugno 2005
ROMA — Si definisce ‘lavoratore stagionale’ ma al paragone con il bagnino non crede, preferisce pensare ad un ‘caporalato di Stato’ che si mette in moto a settembre per chiudersi a giugno. Gianfranco Pignatelli ha compiuto da poco cinquant’anni, anche se portati bene, ed è un insegnante precario da 25. Metà della vita passata con un piede fuori e uno dentro la scuola nonostante una laurea in architettura e sei concorsi ordinari, oltre a due riservati, superati a pieni voti. Figlio di una maestra di scuola elementare, fratello di due docenti di ruolo, marito di un’insegnante anche lei stabile. La passione per l’insegnamento (storia dell’arte) per lui non è mai venuta meno. Con l’immissione di 40mila precari, ce la farà? «Non credo, onestamente. Ho una posizione alta in graduatoria. Ma c’è un marchingegno tale che finirà come al solito...». Che cosa significa? «Che la legge prevede la facoltà anche per chi è di ruolo di iscriversi nelle altre graduatorie. Ma gli stabili hanno più punti e finiscono per scegliere per primi». Ma liberano posti per quelli dietro. O no? «Non è proprio così. Faccio un esempio: le insegnanti di scuola elementare ambiscono a lavorare negli ordini superiori. La spinta è verso l’alto e vengono sottratti posti a chi è abilitato per quell’ordine di istruzione». Sembra folle... «E non è certo l’unica follia. Abbiamo chiesto ai sindacati Cgil, Cisl e Uil un impegno in questo senso in modo da tutelare i precari, per sensibilizzare i colleghi. Se ne fregano». La prospettiva, quindi, resta quella del lavoro stagionale? «Siamo dei vecchi panchinari. Perdipiù malvisti dai colleghi di ruolo e persino dal ministero. Ci considerano quelli poveri. Ma lo sa che i docenti che ti trovi come colleghi a inizio anno ti guardano storto? Quando arrivi in un istituto, a lezioni avviate, i progetti didattici sono già fatti, i test di ingresso già effettuati. Tu sei l’ultimo arrivato e te lo fanno pesare: ti mettono a scrivere i verbali. Poi, magari, alla fine dell’anno, quando si rendono conto che sei uno che lavora, che i ragazzi contano su di te, si dispiacciono perché te ne vai». Ha mai insegnato due anni di seguito nello stesso istituto? «No. Quest’anno ero in uno Scientifico. Quello prima in un alberghiero. E così via». E’ pesante, psicologicamente? «Molto. Con i ragazzi, quando fai il tuo lavoro con impegno e coscienza, si creano legami di tipo anche affettivo. Poi escono i quadri e tu sparisci. Loro non capiscono la burocrazia, la questione degli incarichi. Li incontri e ti chiedono: perché ci hai lasciati? E tu che rispondi? E’ un discorso complicato. Inutile farlo». E nella vita questa condizione ha inciso su progetti, bisogni, sogni? «E’ una questione di equilibrio. Non solo di tipo economico, anche se esiste anche questo problema. C’è un fattore psicologico importante. Ti senti in una condizione di inferiorità. I colleghi ti guardano con sufficienza, con te non fanno squadra. I ragazzi, all’inizio, non ti prendono sul serio. Alla fine dell’anno le cose cambiano ma tu sai che te ne dovrai andare, ricominciare daccapo...». Senza considerare i problemi per gli alunni dal punto di vista didattico... «Manca la continuità. Il ragazzo del quale ti sei conquistato la fiducia se non addirittura l’affetto, ti vede e poi non ti vede più. La sintonia non è soltanto un fatto umano: il coinvolgimento incide sul tuo successo professionale che significa il suo scolastico». Fa anche l’architetto? «Occasionalmente. Sono in balìa di due precarietà che, quando va bene, si alternano. Ma la scuola è un’altra cosa. Ci sono entrato per caso ma è un lavoro maledetto, un lavoro che ti conquista. Non è questione di busta paga ma della luce che vedi negli occhi dei ragazzi. E quando si accende non ci sono dubbi: sei sulla strada giusta». |