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La scuola esilarante.
Alerino Palma presenta La scuola del p(l)of
di Emilio Parresiade
di Alerino Palma, da
Non vado a scuola ma all'asilo del 30/6/2005
La mia prima riflessione, dopo aver letto questo
esile, ma tutt’altro che succinto libretto, è: i lettori. Non penso
che l’autore avesse intenzione di far divertire gli addetti ai lavori
che sono sommersi, vittime del sistema o squallidi baciapile, o
salvati, ma manco tanto, dalla follia della scuola. Saturi comunque
tanto gli uni che gli altri, di sentire ancora parlare di, allineo in
ordine sparso, autonomia pof progetti figure obiettivo utenti progetti
debiti crediti (formativi e didattici) didattichese e
pornosociopsicologia.
Il pubblico dei non addetti ai lavori, il grande pubblico, è un grande
buco nero. Se stiamo all’auditel si diverte con molto meno e apprezza
prevalentemente la comicità gratuita, con o senza ballerine di
contorno. Della scuola sa quel poco che i figli raccontano a casa nei
ritagli di tempo. E anche quel poco, ancora meno, che vede
rappresentato alla tv: le apparizioni rassicuranti della ministra, i
servizi canonici il primo e l’ultimo giorno di scuola, il giorno della
prima prova dell’esame di stato. Si sa, è risaputo che pensa male.
Pensa male della cultura in sé, specie se non serve a niente (lo manda
a dire attraverso i figli in classe). Pensa male degli insegnanti, che
guadagnano troppo in relazione al fatto che lavorano part time.
Si sarà divertito a leggere il pamphlet di Emilio questo pubblico
sconosciuto, come chi vede i buffoni che si sbrodolano addosso il
sugo, confermato nella convinzione che i buffoni sono, appunto,
buffoni e quindi è tutto a posto. Ma non ha capito, il pubblico,
l’ironia di Emilio, le citazioni dotte, le metafore. Non ti
preoccupare, succede anche ai grandi autori. Delle volte però mi
chiedo se può servire a qualcosa dare in pasto a questo pubblico un
altro lato della scuola, quel lato oscuto che in definitiva è anche la
sua ragione di essere.
Il dotto (ci torno dopo) ed esilarante (per sua stessa ammissione)
pamphlet di Parresiade assume la forma di un dizionario, suddiviso in
circa otto parti disuguali, dove la scuola è passata al setaccio in
tutti i suoi aspetti, dai più visibili (le sue gerarchie, l’autonomia,
l’offerta formativa) per planare sugli aspetti terra terra del
trascorrere quotidiano del tempo scuola: gli alunni, i professori, i
computer, gli idioti (utili), i bidelli, per terminare con una
riflessione ulteriore nonché estrema sulle prove del nuovo (ormai
non più) esame di stato conclusivo che è anche una lezione sulla
contraddizione tra la teoria e la prassi, distanza direttamente
proporzionale a quella che separa, nei fatti, la scuola delle formule
ministeriali, e il vacuo psico-socio-porno-pedagogismo che le ispira,
dalla vile o nobile, a seconda dei punti di vista materia umana
che ne riempie la pancia.
Come ci avverte fin dalla premessa, è esclusa, nell’era del p(l)of,
qualsiasi ipotesi di redenzione: "l’unico intendimento dell’autore è,
etimologicamente parlando, il martirio e la profezia: la stupefatta
testimonianza del nuovo che avanza ed il coraggio di smascherarlo
parlando a nome dei molti, muti colleghi ed allievi che, torcendosi le
budella, lo subiscono fracchianamente". L’operetta in fondo è un
catalogo di bestialità. Blehati fino a sotterrarli, anche se forse il
faro è il Dante di certe grevi figure infernali i grandi gerarchi,
in ordine decrescente, sono colti nella loro deformità: il ministro
della pubblica istruzione (ormai solo istruzione), ancorché grande
burattinaio, è invece solo un burattino: "ai più sembra ancora un
uomo, ma a chi lo osservi con sguardo acuminato e aduso ai trucchi,
non sfugge la leggera, innaturale crescita del naso che accompagna le
sue esternazioni". Il Dirigente, già preside, è il risultato di
"rapida evoluzione genetica" che lo ha trasformato da
elefante-burocrate ad asino-manager, capace di combinare, nel proprio
raglio le tre i (la summa della cultura moderna) con le tre o
dell’autonomia scolastica. E via discorrendo, il catalogo contempla
tutti gli attori (e gli orrori) della scuola superiore italiana,
responsabili e vittime, uomini e donne (queste più maltrattate), dare
e avere, cretini e furbi.
L’autore (il più recensito degli ultimi 25 anni in proporzione al
numero di copie vendute della sua creatura) credendo che il libello
possa offendere più d’uno, si astiene dal dichiarare la sua vera
identità optando invece per uno pseudonimato (forse pseudo anch’esso)
che si estende anche ad altri connotati. Per esempio: che materia
insegna? La dottrina spazia dalla geometria euclidea alla biologia (di
cui mostra appena un’infarinatura), dalle leggi della fisica (appena
uno sbuffo) alla trigonometria (piana?) per farsi più corposa sul
terreno delle scienze umane, con spruzzi di Leopardi (chi non lo
conosce), Collodi (chi non lo conosce), Francesco Guccini (abilmente
mascherato), di suàmem (in corsivo) e qualche scempiaggine di
latinorum (chi non ha mai sentito dire almeno una volta: nomina nuda
tenemus, chi non ha mai giocato con la consecutio temporum, chi non è
mai entrato in un refugium peccatorum). Insomma un rappresentante
medio della categoria (vuol far credere), forse un insegnante di
storia e filosofia (e invece insegna latino e greco), dotato di un
certo, raffinato, gusto della provocazione, che sa dosare la volgarità
senza cascare nella tentazione dello junkbook (e ne avrebbe avuto ben
donde), scampato alla lobotomizzazione come recita la quarta, ma non
è fa scherzarci sopra benché non a quel male oscuro e progressivo
che ha reso gli insegnanti, classe intellettuale, incapaci di produrre
contro l’onda anomala delle riforme se non vani esercizi di retorica
(più o meno esilaranti). Per restare alla migliore delle ipotesi.