Il presidente della Crusca torna sull’italiano «cancellato» a Bruxelles.

La portavoce di Barroso: nessuna discriminazione

«Salviamo le lingue dal prepotere dei tre grandi».

Il ricambio che non c’è.

di Francesco Sabatini, da Il Corriere della Sera del 22 febbraio 2005

 

Le brutte notizie sulla lingua italiana provenienti da Bruxelles e da me commentate nell’articolo-intervista del 17 scorso hanno, finalmente, scosso parecchie menti. Protocollato questo effetto, ritengo utile qualche approfondimento, suggeritomi dalle opinioni, tutte largamente consenzienti anche se con qualche distinguo, espresse dal coro di voci. Anzitutto, ho manifestato posizioni che sono il frutto di lunghe analisi della situazione linguistica italiana ed europea condotte dall’Accademia della Crusca insieme con gli altri membri della Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali, attiva da cinque anni. Questo organismo ha emanato quattro anni fa le «Raccomandazioni di Mannheim-Firenze», da me ripetutamente commentate sui giornali e presentate in più occasioni: anche, con un lungo documento del 22 luglio 2003, a un gruppo di lavoro convocato dalla Direzione generale delle «Culturali» del ministero degli Esteri.

Le idee che circolano in materia, non solo nell’Accademia, ma nella comunità scientifica dei linguisti italiani (Associazione degli Storici della lingua italiana e Società di Linguistica Italiana) non sono affatto ispirate a una difesa nazionalistica dell’italiano e delle lingue in genere, né a una banale anglofobia. Il nucleo forte della nostra riflessione sul tema è dato dal principio che tutte le lingue dei popoli europei sono un bene culturale fondamentale dell’intera Unione e che perciò occorre assolutamente una politica comunitaria delle lingue, per sottrarre la loro gestione al prepotere delle tre «nazioni forti» che, come ha ben detto Galli della Loggia, tendono a fare dell’Europa una propria riserva di dominio (ovviamente in tutti i campi).

La proposta proveniente dalla comunità scientifica, inascoltata dai politici di almeno due legislature, consiste nel suggerire (modestamente) agli esponenti italiani di farsi promotori di una politica linguistica comunitaria e di aggregare così intorno a sé il favore degli altri potenziali esclusi. Sarà recepita ora questa proposta?

A chi si pone, forse dopo di noi, il problema dei costi o delle difficili combinazioni delle molte lingue, desidero segnalare che il problema è stato ampiamente dibattuto e che più soluzioni sono state indicate: turni di privilegio alle lingue; opportunità di dedicare risorse alla formazione di un buon numero di ottimi traduttori e interpreti (segno distintivo di una civiltà complessa ma anche dinamica e pluralista); possibilità di creare, a spese della comunità, compensazioni per le lingue meno presenti nelle funzioni istituzionali.

Quanto al rilievo da attribuire - o, secondo qualcuno, da non attribuire - alla lingua come elemento portante, non solo emblema, di un’intera realtà culturale, politica ed economica, dovrebbe bastare la riflessione su quanto fanno con accanimento i Paesi che ci escludono. La superficialità in argomento è, invece, un tratto tutto italiano: cioè, di quella parte della nostra collettività che non ha bene riflettuto sulla nostra storia. Massima attenzione, però, a che questo risveglio d’interesse per le condizioni e le sorti della lingua italiana non serva a resuscitare modelli autarchici e progetti di un Ufficio che detti la grammatica di Stato. La comunità scientifica ha già rifiutato massicciamente tali propositi. I provvedimenti da prendere riguardano invece, innanzi tutto, la migliore (più scientifica e libera) formazione degli insegnanti delle nostre scuole.

A chi, infine, ritiene che le mie proteste tendano in fondo a colpire il governo in carica (così G.C. Romoli Venturi su Il Secolo d’Italia del 20 c.m.), in aggiunta alle informazioni che do qui sopra, dico: 1) nella mia intervista ho dichiarato esplicitamente che l’inefficace azione per tutelare nelle sedi istituzionali europee le posizioni dell’italiano è «colpa tipica dei politici italiani, e non da oggi»; 2) richiami del genere ho fatto negli anni passati in varie sedi e voglio qui segnalare quello esplicito nella mia relazione al Convegno «L’Italia fuori d’Italia» (Roma, 7-10 ottobre 2002), nella quale già evocavo la lunga tradizione italiana di latitanza politica sull’argomento; 3) l’appello a iniziative da prendere con urgenza non poteva non essere rivolto al ministro degli Esteri in carica, il quale con un suo articolo (nel Corriere del 20) dà atto della serietà del problema e non lo riduce, giustamente, a un attacco alla sua recente gestione politica. Sarebbe il caso, dunque, di non farne materia - e lo dico in tutte le direzioni politiche - di piccoli o grandi dirottamenti di colpe sul passato e sul presente. La materia, oltre che politica, è tecnica ed è anche per questo che la comunità scientifica, inascoltata, si risente.

 

* Presidente dell’Accademia della Crusca

«Nessuna discriminazione verso l’italiano», è stata la risposta di Françoise Le Bail, portavoce della Commissione Ue, alle polemiche nate dopo la decisione di escludere l’italiano dalle lingue in cui vengono tradotte le conferenze stampa dei commissari nei giorni diversi dal mercoledì (quando si riunisce l’eurogoverno e vengono diffuse le decisioni più importanti). «Dopo l’allargamento dobbiamo tradurre in 20 lingue, i costi sarebbero enormi», ha aggiunto la Le Bail, che si è detta invece «disposta a discutere» sulla novità dell’introduzione del tedesco. Sul tema è tornato anche il ministro degli Esteri Gianfranco Fini, che ha ribadito «l’impegno, al di là della vicenda di Bruxelles, a rendere la lingua italiana più diffusa non solo nell’Unione, ma nel mondo intero».