L’UE boccia l’italiano a Bruxelles. Lingua morta identità negata. di E. Galli Della Loggia, da Il Corriere della Sera del 19 febbraio 2005
La notizia pubblicata dal «Corriere», che la lingua italiana è stata cancellata da tutte le conferenze stampa (salvo quelle del mercoledì) tenute dai commissari dell’Unione Europea, e che quindi essa è stata esclusa dal gruppo delle cosiddette lingue stabili dell’Unione al quale appartengono francese, inglese e tedesco, riveste una notevolissima importanza politica. Per la prima volta, infatti, se non sbaglio, l’opinione pubblica italiana è informata per un tramite che può ben definirsi ufficiale (la notizia di cui sopra è stata data dal portavoce del presidente Barroso) che il nostro Paese non sarà tra le nazioni guida dell’Unione ma occuperà un posto di seconda fila. È questa una conclusione obbligata, dal momento che risulta davvero assai difficile credere che un Paese la cui lingua è considerata poco importante possa poi rivestire un ruolo politico primario. Ci sarà tempo domani per discutere se un tale esito fosse evitabile o invece fosse in un certo senso scontato da sempre; oggi dobbiamo prendere atto di questo dato politico decisivo: e cioè che dal far parte del novero dei principali iniziatori della costruzione europea ne siamo diventati dei semplici comprimari. Ma non si tratta solo di questo. Attraverso la prospettiva della lingua siamo messi d’improvviso di fronte a un ulteriore aspetto fondamentale della suddetta costruzione europea, rimasto fin qui occultato dalla valanga di retorica che ci viene abitualmente rovesciata addosso quando si parla di Europa. E cioè che questa Europa non sembra affatto destinata a diventare un vero soggetto sopranazionale quanto piuttosto una struttura plurinazionale sottoposta alla leadership permanente, e sia pure bisognosa di consenso, di un ristrettissimo gruppo di Stati nazionali. Le formazioni statali piccole e medie lentamente forse si stempereranno, perderanno vigore e consistenza, ma gli Stati grandi, gli Stati leader certamente invece rimarranno nel pieno del loro rango e del loro potere, specie simbolico. È precisamente questo ciò che ci dice il modo in cui la questione della lingua si sta ponendo. L’italiano cessa di essere una lingua dell’Unione, infatti, ma non già a pro di una fantomatica, e inesistente, lingua europea, bensì a pro del francese, del tedesco e dell’inglese, che se non sbaglio sono le lingue di tre Stati che si chiamano Francia, Germania, Gran Bretagna, i quali quindi ne risultano accresciuti come culture, come società, come tradizioni storiche, insomma come Stati nazionali appunto. Altro che superamento dei medesimi in nome dell’Europa. In tutto ciò, naturalmente, paghiamo anche errori nostri. Come giustamente ha ricordato il presidente della Crusca, Francesco Sabatini, nell’intervista a Paolo Di Stefano sul «Corriere» di ieri, la decisione di Bruxelles è anche il frutto della svogliataggine, della pigrizia burocratica con cui, complice non trascurabile la cronica mancanza di stanziamenti, gli enti e le amministrazioni italiane preposte alla diffusione della nostra lingua e della nostra cultura interpretano da decenni il proprio ruolo: la «Dante Alighieri» da gran tempo sopravvive a se stessa; gli Istituti italiani di cultura all’estero, dal canto loro, sono troppi, privi di mezzi e per lo più considerati dalla Farnesina come l’ultima delle sue preoccupazioni. Più in generale - e ciò che è più grave - manchiamo da sempre di una visione e di una guida politiche che comprendano come una delle principali carte che l’Italia possiede, per consolidare e illustrare il proprio ruolo sulla scena del mondo, è la carta rappresentata dalla sua straordinaria vicenda culturale. I risultati si vedono. |