Il metro della qualità o quello dei bisogni?
di Chiara Zamboni, da il
Manifesto del 13/2/2005
pubblicato su
Retescuole il 20/2/2005
Segnaliamo, seppur con notevole ritardo, un
interessantissimo contributo alla riflessione sul senso del "fare
scuola" pubblicato il 13 gennaio su Il manifesto.
Il progetto di riforma di Letizia Moratti sullo
stato giuridico dei docenti universitari è un tassello di un più
grande mosaico che coinvolge, oltre all'università, la scuola e il
senso stesso di fare e trasmettere cultura e sapere. Val la pena
fermarsi un poco su questa riforma e sull'università, che è oggi un
laboratorio in cui avvengono slittamenti di senso, esperimenti di
trasformazione del simbolico. Vediamo: nel nuovo stato giuridico c'è
la proposta di rendere precarie le figure dei docenti. L'idea è di
impegnarli con contratti a termine senza assumerli. E così saranno poi
più ricattabili da parte delle istituzioni accademiche. Diminuire di
circa un terzo i docenti assunti in modo stabile, con l'eliminazione
del ruolo dei ricercatori, obbliga quelli restanti a dover coprire
moduli vari e molteplici, di frequente lontani dalle linee di ricerca
in cui sono impegnati, con un aumento delle ore di insegnamento, a
quel punto ormai separate dallo studio. A ciò si aggiunga la tendenza
a mettere sullo stesso piano gli insegnamenti forniti dall'ateneo con
quelli che possono venire dal mondo del lavoro. Tutto ciò suggerisce
l'intenzione dei riformatori di eliminare il tempo necessario perché
insegnando si crei un rapporto di fiducia con gli studenti, di slegare
questo legame: sarà lo studente a portare con sé come singolo, la
certificazione delle «offerte formative» seguite, pezzettini di sapere
presi qui e là a seconda del «luccicare» maggiore sul mercato dei
progetti, dei master, dei corsi di specializzazione. Mentre chi ha un
po' di esperienza di insegnamento sa che, solo se si è venuta a creare
fiducia reciproca, allora un discorso risulta formativo e non
semplicemente informativo e le domande delle studentesse e degli
studenti possono cambiare l'andamento di un corso.
Ci sono dei segni che già si leggono nei discorsi, nei volti,
nell'espressione irrigidita di molti insegnanti dell'università, ma
ancor di più della scuola, dove questi processi sono avviati da un bel
po'. È la rigidità della rassegnazione e della fretta, del non aver
più tempo a causa della moltiplicazione dei progetti, dei moduli da
tenere, ognuno isolato: murato vivo nel fare e dalla presa d'atto che
quel che ha imparato dall'esperienza propria e degli altri non conta
nulla agli occhi dei riformatori, i quali, presi da un impeto di
costruzione dal nulla, hanno cancellato percorsi sperimentati,
scoperte, saperi.
Appare come una delle conseguenze - anche se ovviamente non lo è - che
la frammentazione delle «offerte» di didattica e di ricerca porti di
necessità a un governo di pochi, che abbiano - almeno loro, si dice -
il quadro generale di questo mare infinito e sappiano perciò
orientarlo. Così i consigli di facoltà nelle università come i
consigli di istituto nelle scuole sono sempre più luoghi dove si dà un
assenso formale a decisioni prese altrove dai pochi docenti che si
prendono l'incarico di aiutare i presidi per «governare» l'università,
la scuola. In questo modo le gerarchie di potere sono l'altra faccia
della frammentazione. Avverto in chi conosco angoscia, sofferenza e
insofferenza per questo che viene sentito sempre più come un piano
inclinato inevitabile.
Il desiderio di qualità, che guida comunque, oggi come un tempo, chi
fa ricerca e didattica, è stato in questi ultimi anni oggettivato e
stravolto nell'«eccellenza», che contrappone un ateneo all'altro. La
qualità è diventata sinonimo di competitività per offrire al meglio
saperi e formazione. Per il ministero «qualità» significa il calcolo
quantitativo della produzione di testi, convegni, iniziative. Una
parola che ha finito per significare qualcosa di diverso dal desiderio
soggettivo di qualità che accomuna persone molto diverse. Le parole,
si sa, hanno una presa simbolica e un peso politico che varia nel
tempo. È avvenuto che questa parola, così orientante fino a quando ha
tenuto, in una tensione dialettica, soggettività e modificazione del
reale, abbia perso efficacia politica.
Ora a me sembra che queste trasformazioni in corso creino più
malessere alle donne che agli uomini. In genere la forza
dell'insegnare è affidata a quel che di vero e coinvolto si riesce a
dirsi tra insegnanti e studenti e come ci si confronta con gli altri
docenti. Così la ricerca ha sia momenti di lavoro solitario sia
intensi momenti di discussione con gli altri. La maggior parte delle
donne che conosco hanno più inclinazione a questo che alla gestione
della frammentazione, al governo generale della realtà, che prescinde
dai legami creativi con gli altri. Al massimo si pongono alla guida di
dipartimenti, perché sembra loro di tessere meglio le relazioni
esistenti. E dunque mi sembra che soffrano maggiormente quel che sta
avvenendo, meno interessate a ritagliare spazi settoriali, a
distinguere campi per poi riunirli, a posteriori, nel «governo» della
realtà. Alcuni uomini si pongono nella lotta virile di combattere per
il potere, per poter gestire poi in un modo o nell'altro l'università,
altri si ritirano in una posizione di resistenza. Al limite, di
estraneità.
Che fare? Due strade. La prima: esercitare il benefico lavoro della
critica, per mostrare come il simbolico dominante si stia trasformando
oggi nelle parole adoperate come anche nelle pratiche progettate. In
questa chiave ho indicato il legame complementare che esiste tra il
rendere sempre più gerarchica la gestione della università e la
frammentazione delle offerte di ricerca e didattica. Simbolo del resto
di una tendenza che va molto oltre la scuola e l'università.
La seconda: incominciare ad interrogarci politicamente su quali
bisogni abbiamo nel fare ricerca e nell'insegnare. Intendo proprio
bisogni primari, che avvertiamo come assolutamente necessari per
rimettere in movimento percorsi vitali. Ad esempio il bisogno di tempo
per pensare, non riempito dal fare, per capire con gli altri il senso
personale e politico di quel che stiamo facendo. Anche: il bisogno di
far circolare affettività, desiderio e passione nel lavoro. Ancora: il
bisogno di ragionare sulla differenza di desideri tra insegnanti e
studenti. Il bisogno di essere aiutati dall'istituzione.
Parlo non a caso di bisogni. Le ultime riforme della scuola,
dell'università (e non solo) hanno disgregato simbolicamente una forma
di vita. Molti docenti non se ne sono ancora completamente resi conto
e vivono brandelli di una vita parallela segnata da un tempo ormai
scomparso. Non mi aspetto certo da altre riforme il tessere una nuova
forma di vita, dato che è qualcosa di fragile che ha a che fare con
l'esistenza prima ancora che con le leggi, che possono solo venire
dopo. Dopo che il tessuto si è ricreato. Sentire di che cosa abbiamo
bisogno, metterlo in parola, significa toccare ciò che sta tra corpo e
pensiero, tra esistenza e legami simbolici con gli altri. Ritornare
alle radici del fare cultura, tra materialità corporea e gioco
simbolico.