Prove Invalsi.

1. VALUTARE LE COMPETENZE CON UN QUIZ DI DUE ORE?

da Tuttoscuola N. 195, 20 aprile 2005

 

Ogni iniziativa nel settore scolastico mette in scena di questi  tempi n   conflitto  perenne.  Ma  come  è  possibile  che  per  tutte  le trasformazioni in corso non si riesca a creare un clima di serenità e i confronto, discutendo sulle difficoltà senza  creare  una  cultura dell'intolleranza  e  del  conflitto  che  tanti  danni  produce  agli studenti?

L'ultimo caso è quello sulle prove di valutazione dell'Invalsi. Nella prima quindicina di aprile l'Invalsi ha fatto svolgere  (non  in contemporanea) nelle scuole le prove per verificare, scrive l'Invalsi, e "conoscenze e competenze" degli allievi.

L'ambizione non è da poco. Passi,  infatti,  per  le  conoscenze.  Le prove standardizzate servono a questo scopo. In  due  ore,  i  ragazzi risolvono o non risolvono i quiz dell'Invalsi, i tecnici dell'Istituto tabulano i risultati, li elaborano, li restituiscono alla scuole, e si può effettivamente sapere se e  quanti  allievi  hanno  o  non  hanno saputo rispondere ai quesiti, al nord, al centro o al sud,  in  scuole i città o di periferia ecc.

Ma come si fa a pretendere  che  due  ore  di  quiz  servano  anche  a verificare le competenze degli  allievi?  La  pretesa  dell'Invalsi  a questo riguardo è giudicata sproporzionata da molti. Prima  di  tutto perché le competenze sono complesse. Le stesse prove  Pisa,  infatti, da questo punto di vista, non servono, a rigore, tanto per  verificare le competenze  dei  ragazzi  in  situazioni  reali  bensì,  cosa  ben diversa, per verificare la competenza dei  ragazzi  di  risolvere  per scritto, a scuola, in una prova d'esame, problemi relativi a  "casi  e situazioni di una certa complessità, quali sono quelli che si possono incontrare nella vita di tutti i giorni e  che  abbiano  comunque  una rilevanza pratica" (dal Pisa).

Ebbene le prove Invalsi non sono nemmeno di questo genere, come si  è potuto vedere nelle scuole, ma riguardano, al massimo, la verifica  di conoscenze ed abilità astratte e  decontestualizzate.  Come  si  può pretendere che abbiano verificato anche le competenze dei ragazzi?

 

 

2. QUALE IL  FONDAMENTO  GIURIDICO 

PER  VALUTARE  LE COMPETENZE?

C'è    un   elemento  giuridico  che  porta  a  ritenere  la  pretesa dell'Invalsi   di  valutare  le  competenze  degli  allievi  non  solo pretenziosa sul piano tecnico-operativo, ma  anche  ingiustificata  su quello giuridico. L'art. 3, co. 1, punto  a)  della  legge  n.  53/03, infatti, riserva esplicitamente la verifica e la certificazione  delle competenze "ai docenti delle istituzioni di  istruzione  e  formazione frequentate". Ai docenti, non all'Invalsi. Non a caso si è introdotto il Portfolio delle competenze. Sulla stessa linea, gli artt.  8  e  11 del dlgs. n. 59/04.

Nemmeno il dlgs. n. 286/04 istitutivo  dell'Invalsi  affida  a  questo istituto il compito di verificare le competenze degli allievi. L' art. 3 co. 1 punto di  questo  dlgs.,  infatti,  dispone  che  «l''Istituto effettua  verifiche  periodiche  e  sistematiche  sulle  conoscenze  e abilità degli studenti». Conoscenze e  abilità,  non  competenze.  A meno di dire che le abilità sono competenze e che l'una  parola  vale l'altra. Ma allora perchè la  legge  le  impiega  come  diverse?  Per aumentare una confusione che è  già  molto  alta,  oppure  solo  per rispettare il valore dell'autonomia delle scuole e dei docenti?

 

3. Definiranno le scuole ottime e quelle pessime?

Non solo le prove Invalsi non verificano le competenze degli allievi, ma per il modo con cui sono state formulate rischiano di non servire nemmeno per far confrontare i docenti con il problema di una cultura della valutazione che, mentre aumenta la qualità degli apprendimenti e premia il merito, non per questo indulge a derive selettive o lassiste.

In coerenza con la direttiva del ministro, i tecnici dell’Invalsi hanno preso, infatti, alcuni obiettivi specifici di apprendimento (conoscenze ed abilità) presenti nelle Indicazioni nazionali per italiano, matematica e scienze, hanno definito i livelli standard di prestazione attesi rispetto ad essi, hanno formulato i quesiti con in mente tali standard di apprendimento attesi e li hanno distribuiti a tutte le scuole. Tra qualche mese, se le prove si sono svolte correttamente (sembra che in molte scuole ciò non sia accaduto e che il fenomeno anche di gravi violazioni delle regole di somministrazione sia stato addirittura rivendicato in numerosi siti informatici sindacali e parasindacali), si saprà quanti ragazzi hanno raggiunto la prestazione attesa dai tecnici dell’Invalsi che hanno formulato i quesiti. Avremo davvero graduatorie di bravura dei ragazzi e magari, attraverso esse, si suggerirà che le scuole nelle quali i ragazzi non raggiu ngono gli standard Invalsi sono pessime, mentre sarebbero ottime quelle che li raggiungono?

 

4. I consigli di Bertagna

I pareri espressi sulle questioni connesse alla valutazione sono tanti, tra i più significativi meritano di essere segnalate due critiche a questo modo di procedere che Giuseppe Bertagna illustra nel suo libro "Valutare tutti, valutare ciascuno" (ed. La Scuola, Brescia).

La prima: i tecnici dell’Invalsi non possono tenere riservati nella loro mente gli standard di prestazione attesi; devono spiegare alle scuole perché si attendono proprio gli standard di apprendimento scelti e non altri, e come sono giunti a formularli, e perché sarebbero attendibili. La seconda: in verità, la determinazione degli standard di prestazione dei ragazzi non può essere affidata ad un gruppo centrale di intelligenza lungimirante quanto si vuole, ma deve scaturire da un continuo e sistematico lavoro di interscambio tra Invalsi e scuole.

Sostiene il prof. Bertagna, infatti, che i tecnici dell’Invalsi dovrebbero raccogliere, a campione, in scuole del centro, del sud e del nord, gli standard di prestazione relativi ai diversi obiettivi specifici di apprendimento di fatto formulati dai docenti, in situazione reale, nelle loro unità di apprendimento; dovrebbero quindi predisporre una graduatoria di questi standard; scegliere poi quelli che si collocano circa alla metà del livello superiore di questa graduatoria e infine, dopo aver reso pubbliche le proprie scelte, richiedere lo svolgimento nazionale delle prove.

In questo modo, l’Istituto non solo rispetterebbe il dettato del co. 1, punto a) dell’art. 3 del suo decreto costitutivo ("effettua verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti") ma potrebbe raggiungere anche quello non meno importante del co. 1, punto g) dello stesso articolo ("svolge attività di formazione del personale docente e dirigente della scuola, connessa ai processi di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche").

 

5. Ma sono valide?

Vanno segnalate anche altre critiche, però di segno diverso rispetto a quelle precedenti, formulate in molti siti sindacali, da alcune associazioni professionali e da alcuni periodici informatici.

Si possono riassumere in due.

La prima: "il Ministro e il suo staff non si sono accorti che gli insegnanti non hanno gli standard nazionali a cui riferirsi". In effetti, le Indicazioni nazionali, in nome dell’autonomia, affidano la determinazione degli standard di apprendimento delle conoscenze e delle abilità elencate negli Osa nazionali ai docenti e alle scuole, nelle loro Unità di Apprendimento. Evidentemente, si crede che sia meglio sottrarre questa competenza all’autonomia delle scuole e dei docenti per restituirla al centro (all’Invalsi?).

La seconda: "i docenti non sanno a quali conoscenze si riferiscano le prove Invalsi". Meglio, aggiungiamo noi, sapevano che avrebbero riguardato gli Osa di italiano, matematica e scienze, ma non quali Osa in particolare. Ma, in questa maniera, la scuola non rischia di trasformarsi da un servizio per la promozione integrale della persona degli allievi soltanto in una macchina che prepara gli allievi a superare i test dell’Invalsi sugli Osa scelti dal Ministro?

E poi: perché si fa fatica a capire che per creare le condizioni per la condivisione della rilevazione degli apprendimenti degli alunni occorre un dialogo aperto con le associazioni professionali, le organizzazioni sindacali, le famiglie? Non solo: serve un piano complessivo d’intervento formativo a sostegno dei docenti e dei dirigenti scolastici, per far capire le motivazioni dell’iniziativa, i tempi, le modalità e le forme di realizzazione.