Valutazioni via email per i questionari di storia, francese, tedesco e italiano. L’India corregge i compiti degli studenti britannici. Mezzo milione di test all’estero per risparmiare. Critici i presidi. di Alessio Altichieri da Il Corriere della Sera del 26/4/2005
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE La notizia, nuda a cruda, è questa: l’Aqa (Assessment and Qualifications Alliance), uno dei tre principali organismi che in Inghilterra e Galles esaminano i test degli studenti che sostengono il Gcse, l’esame che a 16 anni conclude la scuola dell’obbligo, ha deciso di mandare in India mezzo milione di elaborati per stabilire il voto finale. I test riguardano quattro materie: storia, francese, tedesco e italiano. Ce n’è abbastanza da rizzare le orecchie: forse gli esaminatori indiani conoscono così bene l’italiano da poter giudicare il tema di uno studente? La risposta è questa: potranno fare il loro lavoro anche senza sapere una parola della nostra lingua. Spiegazione. Nel Regno Unito gli elaborati degli esami finali, sia nei licei che nelle università, non sono corretti dai docenti che hanno insegnato ai ragazzi, ma da commissioni indipendenti, che stabiliscono le graduatorie. I risultati dell’esame vengono poi inviati agli studenti entro l’estate, in modo che ciascuno possa decidere il futuro: proseguire dopo il Gcse con i due anni che portano alla maturità (chiamata A Level) oppure iniziare a lavorare. Ma perché l’esame sia uguale per tutti (e il giudizio sia equanime) bisogna che il test sia standardizzato: in genere si tratta di questionari, sia con risposte multiple o con una sola risposta, che lo studente annota nello spazio apposito. Saranno proprio questi test quelli che verranno selezionati in India, da operatori elettronici che poi invieranno l’esito, via e-mail, a Londra. Con questo accorgimento, dicono, l’Aqa spenderà un quinto di quanto avrebbe speso trattando i dati nel Regno Unito. C’è da gridare allo scandalo? No, gli unici che possono lamentarsi sono coloro che perderanno il lavoro a vantaggio di sconosciuti impiegati indiani. Ma il mondo ormai funziona così: anche lo Stato italiano una volta mandò a elaborare i dati del catasto in Albania (è la nostra India alle porte di casa, evidentemente) e pure la Pennsylvania ha scoperto che far leggere le radiografie da ottimi medici indiani costa meno che esaminarle a Los Angeles. A Londra, poi, ogni azienda di medie dimensioni ha capito da tempo che i «call center» e i servizi informazioni funzionano meglio a Bangalore che a Reading: uno chiama la British Gas perché trova che la bolletta è troppo salata e si sente rispondere con una deferenza («Good morning, sir», anche di notte) ormai introvabile in Europa. Naturalmente la delocalizzazione telefonica comporta qualche problema. Agli inizi, i clienti delle banche protestavano perché gli addetti indiani non capivano l’inglese (ed era colpa della loro pronuncia, magari, più che dell’udito degli indiani). Adesso pure a Bangalore si sono fatti più esperti e, anzi, simulano l’accento scozzese che, nel suddito britannico, suscita fiducia più dell’«Estuary English», la parlata popolare dell’East End. Ma naturalmente succedono errori: si cita il caso del paziente che ricevette un referto in cui gli si comunicava che soffriva di «Euston Tube malfunction», una disfunzione alla metropolitana della stazione di Euston. I test d’esame da smarcare in India, così, non sono un problema. Certo, bisognerà che i risultati non subiscano ritardi e tornino in tempo per permettere le scelte degli studenti. Qualcuno spera in un fallimento: la Secondary Heads Association, che riunisce i presidi delle scuole secondarie, dice che l’opzione indiana è «un modo disperato di mantenere un sistema che affonda». Forse preferiscono che affondi nella Manica, piuttosto che nell’Oceano Indiano. |