E se ricominciassimo dalla cultura?.

di Clara Sereni, da l'Unità del 3/8/2005

 

Ho fra le mani un piccolo libro: ben confezionato, con la copertina rossa, mi ha regalato un po’ di minuti di franche risate, e qualche riflessione. Il titolo, «Studio per non studiare» (Polistampa, p. 96, euro 7,00), mi aveva messa in guardia, poi il seme di scrittura che c’è dentro - non ovvio, per un prodotto di questo tipo - mi ha tirato a leggere.

Come sopravvivere all’università è un tema che ha variamente interessato ogni generazione: nella mia facoltà romana, ad esempio, sopravvivere all’esame di latino con Paratore era cosa che metteva in difficoltà i più robusti, e le ragazze di più.

Per lo scritto c’era qualche trucco (i bigliettini infilati nella manica, i Bignami ipertascabili). Per l’orale allora, e per un po’ di anni ancora, la sfida era saperne una più del docente. Il potere della cultura era indiscusso, e la lotta per il potere tout court passava, appunto, dalla capacità di imparare così tanto e così bene da arrivare a strappare il bastone del comando dalle mani di chi lo deteneva. E lo sapevano bene i miei compagni di scuola, sbarcati fra i primi dai piccoli centri della campagna romana o dalle baracche delle “Coree” nel liceo classico, nei pressi della stazione Termini, che anch’io frequentavo: tenacemente, a volte rabbiosamente, fra mille difficoltà, sotto lo sguardo supercilioso dei professori si industriavano a strappare alla vita un pezzo del potere che li avrebbe fatti diversi dai loro genitori contadini o operai.

Anche nel libro che ho fra le mani, per fortuna, i suggerimenti riguardano pure il modo migliore per trarre profitto dallo studio, e non solo i trucchi meno ovvii per aggirare l’ostacolo degli esami e delle prove. Questi ultimi, in ogni caso, hanno la netta prevalenza. Immagino che chi lo ha scritto sia un figlio di papà, uno di quelli che la scuola di Barbiana chiamava “Pierino” (come uno schiaffo in faccia a don Milani, il Pierino di Alvaro Vitali è peraltro la traccia dei fumetti che illustrano i vari capitoli). Ma temo che potrebbe averlo scritto anche chi Pierino non è, un figlio della middle class giunto alle superiori e poi all’università in tempi in cui la cultura era ormai assimilata al “pezzo di carta”, quella cosa che per ragioni occulte bisogna prendere per forza, ma la cui utilità è ormai considerata prossima allo zero.

Quando è successo che la cultura ha smesso di essere identificata con il potere, quand’è che è diventata un pezzo di carta? Non certo nel ‘68 e nel periodo immediatamente successivo, quando sapere una parola più del padrone era imperativo indiscusso e praticato: anche negli esami di gruppo con il trenta politico, che erano straordinarie occasioni di riflessione collettiva e di allargamento di orizzonti.

Credo che la mutazione politico-antropologica sia databile a partire da quando proprio la generazione del '68, pur vincente sul piano del costume, è stata sconfitta ed emarginata sul piano della politica e su quello del potere. Convinta della propria impotenza, la generazione del ‘77 non a caso rivendicava non più la presa della Bastiglia ma il diritto alla felicità, mentre il terrorismo ammutoliva ogni residuo linguaggio politico. Poi il riflusso degli anni Ottanta, e tutto quel che è venuto poi, hanno fatto il resto. E, insieme alla cultura, si è perso il senso della continuità, della storia della cultura. Liberi da rimorsi di coscienza, in molti si sono accontentati di essere ignoranti, nel senso proprio di ignorare. Capita così oggi, per esempio ad un tavola rotonda su cinema e letteratura, di sentir dire da giovani quanto sperimentati addetti ai lavori che il cinema niente debba alla letteratura: come se l’arte del narrare fosse stata inventata adesso, e come se fosse una colpa rivendicare all’uno le radici nell’altra. E capita anche di vedere il buio negli occhi dell’interlocutore a nominare Croce, e constatare che il buio non si dirada specificando timidamente “nel senso di Benedetto…”. Capita anche di vedere accolte con stupore affermazioni scontate per chi abbia a mente l’abc della storia della letteratura e del pensiero. Capita - a me è capitato - di arrabbiarsi molto, e poi essere presi da un grande senso di sconforto: per tutto quello che non si riesce più a condividere, per tutto quello che a qualcuno pareva ovvio e che per qualcun altro è ormai fuori dallo scibile umano.

Faccio queste sconfortate riflessioni, e penso alla scrittura del programma del centrosinistra, di cui cultura e informazione non potranno che essere temi cardine. Se il potere della cultura è stato sostituito dal potere dell’immagine; se la televisione (ma anche il cinema, l’uno e l’altra con qualche lodevole eccezione) ha devastato il panorama dei saperi; se solo nella scuola dell’infanzia restano residui di esperienze “alte”, mentre dalle medie al post-laurea tutto è ormai affidato al caso e alla fortuna: se tutto questo è vero come è vero, il governo che - speriamo - verrà dovrà affrontare una ricostruzione che parta ab imis, a fundamentis, come dicevamo ai tempi di Paratore.

Gli Enti locali si sono già mossi con successo nella direzione di rendere fruibili per molti non solo i concerti rock, ma anche prodotti più sofisticati, “educativi” a pieno titolo: penso al Don Giovanni di Mozart a piazza del Popolo e al Festival delle Letterature di Roma, al Festival Letteratura di Mantova, alle tante proiezioni di film di qualità nelle piazze di tutta Italia, ai concerti di musica classica e sinfonica messi a disposizione da molti Conservatori.

Ma il mondo della cultura è in grado di fornire indicazioni in questa direzione? È capace di assumersi la responsabilità di una proposta, e non soltanto di richieste e lamentele? Oppure la miseria delle risorse finanziarie, e i circoli sempre più ristretti (spesso monadi) in cui ci si è rinchiusi sempre più negli anni rendono difficile fino all’impossibilità che emergano ipotesi di lavoro coerenti ed efficaci? Siamo capaci di ri-pensare la cultura, uscendo dalla morsa prodotti di autore e di nicchia/prodotti di massa scadenti, con poche eccezioni che non fanno la regola, che ci attanaglia da molti anni? E i partiti, sono capaci i partiti di tornare ad ascoltare pur criticamente gli intellettuali, invece di liberarsene come da fastidiose mosche cocchiere?

Per tornare a mescolare fecondamente cultura “alta” e cultura “bassa” occorre ritrovare la capacità di pensare non solo in grande, ma anche in “largo”. Non parlare solo delle leggi per l’editoria o del conflitto di interessi, del Fondo unico per lo spettacolo o delle risorse per la scuola, o di altri elementi settoriali tutti necessari e nessuno sufficiente: bisogna ricominciare a pensare il mondo tutto intero, dall’urbanistica delle periferie urbane produttrici di disagio anche culturale, alla questione della sicurezza, alle possibilità che possiamo conquistare di vivere bene, cioè realmente in salute.

Tante connessioni, tante correlazioni, tante contraddizioni per pensare il nuovo. Il nuovo nella cultura, che poi è il nuovo senza aggettivi.