RIFLESSIONI. Dalla “lettera” di don Milani ai pamphlet che da vent’anni si susseguono. Scuola, il vuoto che avanza. Barbiana diede il via alla ribellione di una generazione ma il sapere in dosi omeopatiche di oggi non serve a nulla. di Paolo Lanaro da Il Giornale di Vicenza del 27/12/2004
«Qualcuno siete riusciti a ghiacciarlo un'altra volta». È scritto a pagina 15 di Lettera a una professoressa e si tratta di uno dei tanti ragazzi che la scuola di quarant'anni fa rifiutava e di cui ci ha raccontato don Lorenzo Milani. Vengono i brividi, non solo per quel "ghiacciarlo", ma per il gelo calato da tempo sulle cose. Don Milani era un apostolo intransigente. Non piaceva a un'Italia conformista, molliccia e fascistoide, anche perché non voleva una scuola qualsiasi. Voleva una scuola che invece di punire gli alunni svantaggiati socialmente e culturalmente, li aiutasse a diventare adulti, vigili, informati e responsabili di fronte alla realtà. La didattica di Barbiana contribuì a far ribellare una generazione. Aspra, viscerale, intelligente, drammatica, come il prete che l'aveva elaborata. Purtroppo si generò un equivoco pericoloso. Quando, dopo la parentesi universitaria, alcuni tornarono tra i banchi nella veste di insegnanti, il moralismo politico e pedagogico di don Milani diventò una specie di attivismo rivoluzionario impaziente e imparaticcio. I ragazzi venivano affrontati come fossero gli operai del "biennio rosso", ma erano già in massima parte figli di impiegati, artigiani, piccoli commercianti, masticavano ciclopiche palle di chewing-gum, andavano in vacanza a Rimini e qualcuno perfino in Inghilterra. Era difficile, oltre che privo di senso, scaraventarli addosso al capitalismo. Già avvelenati dal consumismo, si cercava di addomesticarli con un po' di ginnastica ideologica. Lo schema era: didattica alternativa-coscienza di classe-rivoluzione. I ragazzi non capivano. La scuola non gli chiedeva riflessione, esercizio, impegno, carattere, ma puntava su astratti e incomprensibili obiettivi extra-scolastici. Il risultato fu una paralisi pedagogica, fatta eccezione per alcuni pregevoli sforzi innovativi come il Movimento di Cooperazione Educativa o il Cidi. I Visalberghi, i Codignola, i Lombardo Radice venivano sbeffeggiati in quanto sostenitori di progetti riformistici in grado di correggere gli squilibri strutturali di una scuola costruita per selezionare le élites politiche, tecniche e manageriali del paese. Le elucubrazioni ministeriali, da parte loro, agevolavano lo sbando, mentre gli insegnanti, agli occhi dell'opinione pubblica, diventavano sempre più una categoria sospetta, superflua e parassitaria. Il declino della scuola italiana è cominciato allora e ha come responsabili chi, da una parte, obbligava la scuola a restare ferma mentre intorno tutto cambiava, chi, dall'altra, scambiava per trasformazione politica e culturale gli slanci della propria incompetenza. Da una ventina d'anni, dal mondo della scuola, vengono soltanto pamphlet dolorosi, nostalgici, feroci, nichilisti. Quando Domenico Starnone pubblicò Ex cathedra , fu chiaro che la lettera di don Milani non era e non sarebbe più arrivata. Arrivavano bozze di riforma (quella lodevole di Brocca per esempio) ma restavano bozze, conati, coupons impossibili da spendere. E intanto gli insegnanti assistevano attoniti al proprio annientamento sindacale, alla distruzione del proprio status, allo svuotamento generalizzato delle forme del conoscere. Starnone narrava con toni patetici ed esilaranti una scuola che non sapeva più interpretare, né tantomeno modificare le prospettive degli alunni. Studenti e insegnanti cominciano a non capirsi più, si guardano da due sponde diverse e in mezzo c'è un diaframma che spezza le parole e gli sguardi. Dall'idea coltivata in precedenza di una scuola iper-pedagogizzata si stava passando alla realtà di una scuola totalmente de-pedagogizzata. È chiaro che se la scuola di prima era diventata anacronistica, una scuola dove il sapere si somministra in dosi omeopatiche è una scuola che non serve a nulla. Starnone non mostrava rimpianti, ma si capiva che la dimensione liturgica del rapporto insegnante-discepolo era ormai ridotta a una psicomachia assurda: insegnanti insoddisfatti, nervosi, vociferanti, studenti che rispondono a sghignazzi e singhiozzi. Starnone faceva amaramente capire che il tempo della scuola assomigliava sempre più all'attesa in una stazione ferroviaria, invece che al prologo di un tempo diverso, pieno, attivo, intelligente. Qualche anno fa Umberto Fiori, un poeta milanese, ha aggiunto qualche altro supplemento a questa specie di odissea che non si conclude mai, ma è fatta sempre più di capitoli a volte intensi, a volte lacrimevoli, a volte ridicoli, a volte comatosi. La scuola di Fiori ( Tutto bene, professore? ) è la scuola aziendalizzata, delle circolari, degli incentivi, degli sportelli, dei POF, dei debiti, dei mancati risarcimenti ecc. È la scuola spesso dileggiata e indicata come responsabile del disordine emotivo, dell'ignoranza, del deficit di progettualità dei ragazzi, delle loro paure e dei loro errori. Difficile ribattere che se qualcosa non va nella testa e nei sentimenti dei ragazzi la colpa non è del professore di matematica, ma è da ascrivere a un quadro generale di irresponsabilità e di cialtroneria che grava sulla scuola come su tanti altri settori della vita collettiva. È un fatto che la bufera burocratica e normativa (come racconta Paola Mastrocola ne La scuola raccontata al mio cane ) rende allo stesso modo insegnanti e studenti vittime di meccanismi sempre più incomprensibili. Il contesto sembra quello di un'apocalisse antropologica, alle soglie di un mondo completamente oggettualizzato, fatto di Nike e cellulari, di felpe e cinture borchiate, di spinellanti e fannulloni, a cui si controbatte con le griglie di programmazione. Forse però le cose non sono proprio così, anche se si può comprendere che l'amarezza è tale da doversi sfogare con le iperboli. Dietro la situazione di oggi c'è un complesso di ragioni: la crisi dei ruoli genitoriali, il tramonto dei grandi sogni collettivi, la mancanza di confini della transizione adolescenziale e molto altro ancora. C'è una nebbia totale, ma è vero che i ragazzi esistono e sono lì a ricordarci le nostre inadempienze, la nostra frequente incapacità di offrire esempi e valori, di proporre idee in cui credere o contro cui battersi. Mastrocola dice per esempio che si parla troppo di metodi e sempre meno di contenuti. È vero in linea generale, ma la difesa dei contenuti non transita attraverso la demolizione della scuola di massa e la sua riarticolazione in livelli differenziati di formazione. In un paese in cui ci sono due milioni di analfabeti e quindici milioni di semianalfabeti i progetti morattiani, tanto per dire, rischiano di alimentare una prospettiva lacerante dal punto di vista sociale e culturale. Studiare è sempre stato difficile, ma è un'attività che alla lunga fa bene. Il problema è che la scuola, da sola, non è in grado di farlo capire e del resto nessuno riesce a farsi capire se non è assecondato dall'attenzione, dall'interesse, dalla curiosità degli altri. Detto in altre parole, Kant non può nulla contro la logica di Pappalardo, l'eros delicato di Piccarda Donati soccombe di fronte alle tette delle sorelle Lecciso. Il sapere a suo modo è una forma di moralità, oltre che l'unica chance per poter credere a un futuro. A un certo punto se ne rende conto perfino Pinocchio, la cui transustanziazione ha un profondo significato. Possibile che in questo paese si voglia continuare a essere delle teste di legno? |