Intelligenti nel banco degli asini
di Raffaele Simone da Il Messaggero del 29/8/2004
ORA che le vacanze le abbiamo finite quasi tutti, possiamo anche prendere in mano due librettini seri, che, sebbene non ci dicano niente di simpatico, ci aiutano a capire che cosa succede nel paese reale. Il primo è Il declino dell`Italia di Roberto Petrini, edito qualche mese fa da Laterza. Tenetevi forte: dimostra, con dati in quantità e comparazioni internazionali, che l’Italia sta perdendo terreno in una varietà di campi, a cominciare dalla ricerca e dall’innovazione tecnologica. Siamo tra i paesi al mondo che producono meno brevetti (poche decine all’anno), la maggior parte di quelli che adoperiamo sono comprati all’estero. Il secondo non è più confortante, sin dal titolo: Il declino dell`Italia industriale di Luciano Gallino, edito da Einaudi. Racconta la graduale scomparsa di alcune tradizioni industriali importanti in Italia (automobili, telefonia, informatica, ecc.), anche qui a causa di scarsità di brevetti e di errori di gestione. Perché tiro fuori, proprio negli ultimi giorni di agosto, questi riferimenti malinconici? Perché in questi giorni vengono diffusi i dati sulle pre-iscrizioni degli studenti all’università, cioè delle dichiarazioni di intenti che ciascuno fa nei confronti di questo o quell’indirizzo di studi. Questi dati, che sono provvisori ma indicano un trend, fanno capire una cosa che mette paura: gli studi scientifici non interessano quasi più a nessuno! La maggior parte delle richieste riguardano medicina, giurisprudenza, economia, informatica. Ma se guardate i dati concernenti le Scienze con la “s” maiuscola (matematica, fisica, e scienze naturali) avrete un colpo al cuore: sono poche decine di ragazzi. Il trend era del resto già evidente da quattro o cinque anni in tutte le università, anche se è stato sottaciuto. Nel 2002-03, ad esempio, a fronte di valanghe di pre-iscrizioni per medicina, giurisprudenza e economia, si avevano 299 candidati a chimica, 357 a fisica, 368 a matematica, 168 a geologia. Nel 2003-04, ancora peggio: i candidati chimici erano 278, i fisici 310, i matematici 339, i geologi 166. Quest’anno, i primi dati ancora non aggregati sembrano essere ancora più bassi. Queste cifre, nella loro secchezza, additano un ulteriore temibile declino d’Italia: la graduale scomparsa del popolo della scienza, proprio in un paese che si considera tra “i più intelligenti” del mondo. Si tratta, come si vede bene, di poche decine di persone per ogni specialità (contro i quasi 4000 candidati a medicina), sicuramente non sufficienti. Qualche misura è stata tentata per frenare questa fuga. Il Ministero ha creato un fondo con cui le università hanno potuto ridurre in misura notevole le tasse di immatricolazione alle facoltà scientifiche, augurandosi così di accrescerne l’attrattiva. In alcuni atenei l’immatricolazione è stata quasi gratuita, caso unico nella nostra storia. Ma non sembra che ciò sia bastato a richiamare qualche persona in più. Il fatto è che i giovani non vogliono aiuti finanziari durante gli studi: vogliono qualche assicurazione sulla possibilità di fare buon uso del titolo universitario dopo, nella vita reale. È qui infatti il vero guaio. In Italia la pratica della scienza e in generale delle attività cognitive complesse è da tempo screditata. Mettiamoci se volete il consumismo, le mille distrazioni, il fatto che si tratta di studi complicati... Ma la causa vera di questa travolgente disaffezione sta nel fatto che da noi la scienza e le sue applicazioni non danno luogo a professioni, ma solo a hobby, passatempi e ripieghi. Gli specialisti nelle materie cosiddette “scientifiche” sfruttano il loro sapere in alcuni ambiti privilegiati: la ricerca (nelle università o nelle industrie), la scuola (dove il sapere scientifico viene trasferito), l’amministrazione pubblica (vedi il caso dei geologi della protezione civile o dei meteorologi). Ora, in ciascuna di queste aree c’è qualcosa che non va. Nell’università un ricercatore di livello internazionale può esser pagato quattro soldi e valutato in modi che suscitano da decenni proteste internazionali. La fuga dei cervelli sulla quale si versano inconsolabili lacrime deriva esattamente da questo fatto. Nell’industria, dove la ricerca dovrebbe essere il motore dell’innovazione, l’Italia ha smantellato quasi tutto, come mostra il libro di Gallino. Della scuola non parliamo neanche: gli stipendi da fame che questa dispensa ai fortunati che riescono ad accedervi sconsigliano di presentarsi con professionalità troppo ricche. Tacerei anche della ricerca nell’amministrazione, che non pare essere particolarmente ben trattata. Conclusione. Perché un giovane, anche con forte vocazione, dovrebbe iscriversi a una facoltà scientifica, oggi, in Italia? Sarebbe tempo di domandarselo in modo serio, se non vogliamo restar tra gli ultimi anche in questo campo. |