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Zillano i Rondoni
alle cattedre
“Zillavano” alle grondaie. Parlavano una “lingua di gitane che più non
si sa” – la lingua altra della poesia – le rondini di Pascoli. Naturale
che faccia il poeta (oltre che l’ideologo di Comunione e Liberazione,
nonché l’opinionista dell’Avvenire e del Sole 24 Ore), uno che si chiama
Rondoni (Davide). Nomen omen, la lingua delle rondini Rondoni la sa.
Come mai allora ha scritto il pamphlet Contro la letteratura (il
Saggiatore)? In copertina una rivoltella puntata contro la fronte
laureata di Dante. Sarà ucciso dalla società dei consumi, o dalla
volgarità diffusa, o dall’analfabetismo (d’andata e di ritorno), o dal
dominio del profitto, o da qualche mediocre scrittore di successo? No,
il giallo è semplice: la mano omicida è quella d’un (qualsiasi)
professore di Lettere d’una (qualsiasi) scuola pubblica. Che se ne sta
in classe col “culo dell’anima seduto comodo”. Un’anima morta, un travet
che pretende inutilmente d’intendere – e di far intendere – la lingua
delle rondini che, naturalmente, solo i Rondoni sanno. Gli Eletti, che
“senza troppe formalità” dovrebbero essere reclutati nella scuola per
tenere accesa la scintilla del Divino, in un nuovo “ordine di lavoratori
a contratto”. Basta con tutti quei cadaveri di autori fatti fuori nella
routine da noiosi, impoetici insegnanti: i tempi sono maturi perché la
Letteratura nella scuola diventi finalmente – questa la Proposta del
poeta Rondoni – facoltativa.
Si rintraccia un antecedente ideologico (antidemocratico,
anti-illuministico) nel Papini di Chiudiamo le scuole (1914),
istituzioni “essenzialmente antigeniali” che “intristiscono gli animi”
(A. Cortellessa, “Perché bisogna difendere il professore di lettere”,
Repubblica 10/12/10). Ma la difesa peraltro lodevole da parte del
critico (Cortellessa usa un “noi” da collega, ma Repubblica lo rubrica
in calce solo come “saggista”), non cerca un punto di forza nel fattore
economico-sociale (pur rilevato: “Certo, la sistematica umiliazione
sociale dei docenti ha prodotto, in molti di noi, disamoramento e
routine.”). Le condizioni materiali del nostro lavoro (stipendio basso,
scuole fatiscenti, prive di fondi, aule affollate ecc.), anche nel suo
caso, restano sullo sfondo. Sostanzialmente nel rimosso. Si sospetta,
certo, che tali condizioni abbiano contribuito a sfibrare il ceto, ma si
preferisce alla fine far leva sull’astratto volontarismo, incardinato
nel ben dell’intelletto. Con esiti d’involontaria comicità dove
s’impiega il nesso metaforico (ma non sarà letterale?) costi/benefici:
“Dobbiamo (…) mostrare quanto ci costi il dedicarci ad essa [la
letteratura, ndr]. Quanto la sua esperienza sia tutto meno che gratuita.
Quanto profondamente, cioè, ci abbia trasformato: almeno quanto esigiamo
che non lasci indifferente chi ci ascolta.” Appunto, la Letteratura a
scuola costa: sempre di più a noi, sempre meno allo stato. Che anzi la
vorrebbe gratuita, col gradito supporto di zillanti Rondoni, lirici
quanto organici alla prosaica destra dei Grandi Tagli.
Intanto, le sempre più vistose pezze al culo del professore (non solo di
Letteratura), non lasciano indifferente chi forse l’ascolta poco, ma ne
confronta certamente il look con quello del babbo o dello zio.
Arlekin
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