Le parole sono pietre.
Giampiero Griffo da
Superando del
10/10/2005
La lingua italiana
aggiorna continuamente il proprio vocabolario: la conferma è data
anche dalle nuove edizioni dei dizionari che introducono i neologismi:
parole che descrivono nuovi fenomeni o che cercano di modificare
precedenti definizione. Il recente vocabolario della lingua italiana
Zingarelli ha introdotto ad esempio il termine “diversabile” (p. 579).
«La Repubblica» ha commentato: «Muta anche il politicamente corretto:
disabile ora si può dire diversabile»
La lingua, al contrario
di quello che si pensa, è molto influenzata da quello che avviene
nella società in cui è parlata. Quella degli Inut
della Groenlandia, ad esempio, ha più di cinquanta maniere differenti
di descrivere la neve, perché la neve è parte essenziale del loro
habitat di vita.
In altri casi, quando si tratta di definire realtà nuove,
nel giro di pochi anni si modifica continuamente la terminologia,
producendo a volte un effetto di confusione. Quando poi si tratta di
definire caratteristiche umane che, per trattamenti di discriminazioni
e di esclusione, risultano “scomode” o “imbarazzanti”, allora il
coacervo di parole che si accumulano sembra il deposito di un
rigattiere o peggio ancora un museo degli orrori!
Spesso il mondo delle
persone con disabilità è visto come un tutt’uno nel
quale si presuppone una compattezza interna, che di fatto non esiste,
venendo così a mancare la capacità di tenere conto delle
specifiche esigenze e della valorizzazione delle
risorse di ognuno. Sappiamo invece che si tratta di un mondo
composto da gruppi di persone con caratteristiche molto lontane fra di
loro, che non necessariamente si conoscono e sono in grado di
comprendere i rispettivi problemi specifici. Pensare quindi di
descrivere le caratteristiche delle persone con un’unica parola è
la forma migliore per cancellarne l’esistenza concreta.
Ciò emerge in modo evidente nell'uso delle parole. Da un lato, i
termini usati per definire gruppi di persone con caratteristiche
diverse dalle nostre, dall'altro quelli utili a definire le persone
che fanno parte del proprio gruppo.
È attiva da anni la
discussione, a livello internazionale, che analizza i temi della
discriminazione, della segregazione fisica,
della mancanza di pari opportunità che le persone con
disabilità subiscono dalla società. Cercare di fare il punto della
situazione può aiutarci a comprendere meglio il perché la parola
diversabile mi sembra assolutamente senza senso, anzi
foriera di conseguenze negative per le stesse persone con
disabilità.
Spesso dimentichiamo che
alcune parole descrivono persone. Le immagini culturali che vengono
utilizzate per descrivere le persone che hanno caratteristiche
ritenute socialmente indesiderabili mettono in evidenza elementi che
sono diventati senso comune: in un certo senso sono i cosiddetti
“miti”, cioè quelle percezioni immaginative che non
hanno bisogno di essere spiegate perché sono immediatamente evidenti e
socialmente accettate.
Quando poi le persone vengono ridotte agli aggettivi che descrivono
alcune loro caratteristiche, il processo di cancellazione
di esse giunge al culmine.
Oggi a livello
internazionale si preferisce parlare di persone con
disabilità, usando il termine persona al posto
delle forme aggettivali come invalido, disabile
ecc., una scelta che ha il vantaggio di non attribuire all’intera
persona un attributo che è solo una parte di essa e che lascia intatto
un termine (persona) in sé neutro, in quanto non ha caratteristiche né
positive né negative.
Un secondo aspetto da
considerare è quello percettivo: tutte le
terminologie usate comunemente per descrivere le persone con
disabilità sono centrate su un aspetto percepito (la sofferenza,
la malattia, lo svantaggio, la patologia: tutti
elementi che descrivono una persona in negativo). Oppure attribuiscono
caratteristiche limitate a una persona che, in più, viene gravata di
una “semantica sociale” negativa.
Il combinato di queste soluzioni linguistiche è terribile: pensiamo
per esempio a distrofico inabile o invalido incollocabile.
Per questo, ad esempio, al termine sofferente psichiatrico,
che ogni tanto si sente usare, il movimento delle persone che sono
uscite indenni da un trattamento psichiatrico preferisce quello di
sopravvivente psichiatrico, a sottolineare
che la persona è sopravvissuta ad un’esperienza manicomiale o ad un
momento di acuzie che, in ogni caso, in passato la etichettava per
sempre.
Esiste poi
l’espressione: persona che non può rappresentarsi da sola,
definizione, questa, che nasce dallo sforzo di superare
termini medici quali ritardo mentale, difficoltà di
apprendimento, disabilità mentale. Lo sforzo ha lo scopo
di sostituire la descrizione patologica e globale della definizione,
concentrandosi sulle competenze della persona.
Si tratta certamente di una definizione di impatto, ma che è anch’essa
in evoluzione. Pure in questo caso, infatti, conviene riflettere sulla
legislazione, che oggigiorno prevede la possibilità
di differenziare le diverse situazioni.
Un tempo l’impossibilità di rappresentarsi, dal punto
di vista legale, era irreversibile e riguardava
l’insieme della persona (l’istituto giuridico dell’interdizione); oggi
la nuova Legge sull’Amministratore di Sostegno (Legge
6/2004) ha introdotto il concetto di
interdizione parziale e reversibile.
Finalmente è possibile quindi rivedere dei giudizi che un tempo, una
volta emessi, erano di condanna permanente all’esclusione sociale.
Certo, possiamo immaginare che una persona che non sa gestire il
denaro possa non arrivare a gestirlo mai, ma per quanto riguarda le
scelte relative a come preferisce vivere - scegliere un gelato alla
fragola o alla nocciola per esempio - egli è perfettamente in
grado di valutarle, prenderle ed esprimerle.
Certamente è possibile agire bene e parlare male, in
quanto i linguaggi si cristallizzano, anche se così spesso il parlare
male è l’indizio di una certa superficialità e carenza di riflessione.
Non bisogna però dimenticare che le espressioni corrette sono tali non
solo perché “politicamente corrette", ma anche perché non
feriscono chi le riceve.
È vero che in fondo il
linguaggio serve a farsi capire, ma quando si tratta di descrivere le
caratteristiche delle persone non si tratta più solo di una
descrizione, ma della proiezione di una visione sociale di
quelle caratteristiche.
Perciò nel caso delle persone con disabilità, non si può prescindere
dalla storia che ha prodotto quella visione sociale negativa. Qui
infatti la parola trasmette anche la visione che la società ha
delle persone che hanno determinate caratteristiche. Nel
nominalismo medievale si riteneva che i nomi fossero talmente
appropriati da essere in sé l’oggetto. Vi è un fondo di verità in
questa apparente esagerazione.
Il significato di una
descrizione che la parola mette in evidenza ha un'oggettività
percettiva paragonabile a quella delle pietre, la
descrizione che viene veicolata ha un peso specifico anche molto
pesante.
Spesso si percepisce il linguaggio (nel suo significato di
descrizione di qualcosa e di percezione che quella parola genera in
chi la ascolta) come la rappresentazione dell’ovvietà, dimenticando
che i linguaggi sono frutto di una storia: la storia
delle persone con disabilità è storia di segregazione,
esclusione, cancellazione sociale e le parole che
identificano queste persone sono state scelte da altri, pensate
attraverso un approccio culturale con la diversità che ha privilegiato
la scelta di proiettare fuori da se stessi gli aspetti che la società
(e le persone di quella società) riteneva negativi e
socialmente indesiderabili.
Questo processo in termini linguistici ha prodotto il trasferimento di
una valutazione, negativa su determinate persone. Di fatto ognuno di
noi può, a un determinato punto della vita e per i motivi più diversi,
vivere un’esperienza di follia: Franco Basaglia ha
messo in evidenza che ognuno ha dentro di sé questa possibilità e,
semplicemente, chi è in manicomio non è sopravvissuto a questa
evenienza senza essere ricoverato.
Basaglia usava una frase che descrive bene l’unicità di ogni persona:
«visto da vicino nessuno è normale». Dobbiamo essere
consapevoli di questo e ricordare sempre che le parole
sono come pietre e vanno usate con molta attenzione.
Naturalmente i termini
che descrivono le persone con disabilità sono in evoluzione
continua, proprio perché il movimento di emancipazione
mondiale conquista ogni giorno di più forza e coscienza della propria
condizione.
Esaminando la legislazione italiana si vede chiaramente il processo
che ha portato da termini come invalidi o inabili,
in un mondo in cui esistevano le classi speciali e gli istituti, ai
termini di handicappati o portatori di handicap,
diventati comuni con la Legge quadro sull'handicap
104/92, che
agiva in una società che rivendicava l’integrazione sociale,
sottolineando lo svantaggio sociale che la società stessa produceva.
Vi era ancora in quella descrizione un’attribuzione negativa alla
persona che soggettivamente veniva gravata di una negatività.
Il passo successivo ha portato alla definizione di persone con
disabilità, quella attualmente riconosciuta e accettata
dal movimento internazionale, in cui al concetto di
persona - universalmente accettato e ritenuto positivo - si
accomuna un'attribuzione ricevuta: quel “con”,
infatti, descrive qualcosa che non appartiene a quella persona, ma
gli è imposto.
Infine, il concetto di disabilità è mutuato dalla recente
definizione dell’ICF
(Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e
Salute) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS):
la disabilità è prodotta dal rapporto tra le caratteristiche
delle persone e l’ambiente in cui esse vivono e le capacità che le
persone stesse hanno sviluppato.
Muovendomi in sedia a rotelle, ho una disabilità quando il
luogo in cui mi muovo ha dislivelli in verticale superabili solo con
scale o quando - orientandomi con un bastone bianco - non vi sono
pavimentazioni o guide sonore che consentano di spostarmi in
sicurezza. In ambedue i casi, la disabilità non è un fattore
soggettivo (dovuto a cecità o paralisi agli arti inferiori
della persona), bensì è causato da una società che non ha progettato
per tutti.
Lo stesso vale per le capacità soggettive, che se sono rafforzate e
potenziate consentono di superare altri ostacoli e barriere: pensiamo
al conseguimento della patente di guida per una persona che vive in
una città con autobus inaccessibili o a una persona che non è in grado
di svolgere compiti complessi a cui viene offerto un lavoro con
mansioni semplici e ripetitive.
La disabilità dipende quindi dall’invisibilità sociale e
politica (delle persone con disabilità si occupano
solo la sanità e l’assistenza) che cancella spesso le
responsabilità ad agire di chi si occupa di trasporti, di turismo, di
lavoro, di tempo libero. E nello stesso tempo dipende dall’impoverimento
sociale cui le persone con disabilità sono state sottoposte:
chiuse in famiglia, in istituto, in classi speciali, esse sono state
letteralmente impoverite di competenze sociali.
Oggi, il nuovo approccio dell’ICF ha quasi eliminato anche
un’altra negatività che veniva attribuita a chi conviveva con una
disabilità: la medicalizzazione (il concetto di
menomazione come elemento che produce l’handicap). Nell’ICF,
infatti, si parla di strutture e attività,
termini più generici che appartengono a tutti, talché la disabilità è
una condizione ordinaria della vita che appartiene a tutto il genere
umano nell’arco della propria esistenza e non è legata ad una
condizione di malattia.
Purtroppo ancor oggi per poter beneficiare di determinati diritti e
provvidenze si usano definizioni medicalizzanti o negative,
utilizzate negli accertamenti diagnostici, che portano all’uso di
linguaggi descrittori sanitari (certificati medici, scolastici ecc.).
Questo linguaggio confonde purtroppo la soglia oltre la quale poter
godere di un beneficio o di una provvidenza, con la pretesa di
descrivere la persona. Bisogna quindi costruire un linguaggio
che faccia capire come le persone siano un
insieme di caratteristiche e che questo insieme compone una
persona che non può essere ridotta ad una di queste caratteristiche
(spesso solo quelle considerate negative).
Cosa ci propone invece
l’inaccettabile diversabili?
Innanzitutto riduce una persona ad un suo eventuale attributo,
cancellandone le specificità. In secondo luogo, l’attributo che viene
scelto per definire la persona appartiene a tutte le persone:
conoscete persone che possano essere definite "ugualabili"? Cioè le
cui capacità e abilità siano uguali a quelle della persona che gli sta
a fianco sul tram? E ancora, è più diversabile la persona che
non sa guidare un'auto da quella che guida con i comandi a mano? Ha
più diverse abilità l’analfabeta rispetto al non vedente che legge con
la sintesi vocale?
Il termine infine produce un ulteriore elemento negativo: cercando di
definire - secondo chi lo utilizza - in maniera positiva le capacità
delle persone, cancella la condizione di discriminazione e di
mancanza di pari opportunità che queste stesse persone
subiscono dalla società e dai processi di impoverimento.
Non è un caso che negli ultimi anni questa definizione assolutamente
inappropriata venga a nascondere un abbassamento dell’impegno
delle istituzioni e della società nel suo complesso: «se sono
diversabili - ci dice questa parte della società - allora non ho più
nulla da fare, se la risolveranno con le loro forze...».
Viene così di nuovo relegata nel privato la soluzione degli
“eventuali” problemi.
Vorrei concludere il mio
intervento ricordando quello che sottolineavo prima: le
categorializzazioni astratte producono classificazioni
semplificatorie e processi di invisibilità sociale.
Non è un caso che la FISH (Federazione Italiana per
il Superamento dell'Handicap) rivendichi la personalizzazione degli
interventi, i progetti individuali, gli interventi che partono dalle
violazioni di diritti umani che le persone con disabilità e le loro
famiglie vivono ogni giorno.
Il bisogno deve arrivare ad essere così chiaramente espresso da far
emergere quella sorta di normalità che appartiene a ciascuno.
Personalizzando si scopre che tutte le persone vogliono vivere una
migliore qualità della vita e hanno bisogno di determinati servizi per
conseguirla: non si attribuisce più niente di negativo alle persone,
si prende atto di necessità, bisogni, desideri.
Questo semplice approccio richiede una maggiore attenzione alla
condizione delle persone svantaggiate, ma a ben riflettere è
appropriato per tutte le persone.
Certamente è vero che le
persone con disabilità fanno alcune cose in modo differente, ma
la differenza non ci fa diversamente abili:
chi usa da anni una carrozzina non la usa in modo diverso da chi
cammina con le proprie gambe, semplicemente la usa, mentre l’altra
persona non ci si è neanche mai seduta sopra.
La dura realtà è che
è ancora lunga la strada per far accettare le diversità umane
come ricchezza: il colore della pelle, le credenze religiose,
l’orientamento sessuale, l’età, la condizione di disabilità sono
ancora considerate caratteristiche socialmente indesiderabili. E sono
solo queste diversità che producono lo stigma sociale negativo che la
società ci attribuisce, per cancellare il trattamento diseguale e
discriminatorio che ha riservato alle persone che avevano quelle
caratteristiche. Ricondurre ad ordinarietà tutte le
caratteristiche umane è l’obiettivo di un linguaggio
rispettoso e inclusivo.
Il movimento mondiale
delle persone con disabilità è stato capace di usare nuovi linguaggi e
nuove forme di descrivere il mondo che non esclude:
universal design, empowerment,
mainstreaming sembrano parole lontane, ma
diventeranno presto reali quando la
Convenzione
dell’ONU
per la Tutela della Dignità e i Diritti delle Persone con Disabilità
darà un’altra spallata all’imbarazzo di chi pretende di descriverci
con le sue parole.