Quanto conta il bravo maestro. di Salvatore Modica, da La Voce del 27/6/2005
È da poco apparsa su Econometrica una importante ricerca sulla qualità della scuola, alla quale hanno lavorato studiosi che si occupano di scuola da trent'anni. Le due questioni che l'articolo affronta sono queste: quanto contano gli insegnanti nel determinare la qualità dell'apprendimento? E cosa determina la qualità degli insegnanti?
Un insegnante vale l’altro? A giudicare dall'alacrità con cui i genitori si informano sui possibili insegnanti dei figli, e da tutto quello che sono disposti a fare per ottenere che i figli entrino nelle classi degli insegnanti che vengono giudicati bravi, sembrerebbe del tutto evidente che la risposta alla prima domanda non possa che essere: "gli insegnanti contano quasi più di tutto il resto". Il problema è che quando per la prima volta, negli Stati Uniti con il Coleman Report del 1966 si cominciarono a misurare gli effetti delle caratteristiche principali degli insegnanti, quali per esempio la loro esperienza di insegnamento e il loro livello di istruzione, sui risultati degli alunni, si trovò che risultavano sorprendentemente deboli. Da allora, le ricerche si sono ovviamente moltiplicate, gli strumenti di misurazione raffinati, sono poi cominciati ad arrivare risultati dei test sulla qualità dell'apprendimento, si sono evolute le tecniche econometriche di analisi dei dati, e così via. Tutte queste ricerche non hanno fatto altro che riconfermare quelle strane conclusioni del Coleman Report: le caratteristiche che comunemente si pensa stiano alla base della qualità degli insegnanti non influenzano più di tanto la qualità dell'apprendimento. Pochi credo abbiano pensato di potersi basare su questa pur schiacciante evidenza per dire convinti a un genitore "Rilassati, in fin dei conti un insegnante vale l'altro". Ma come dimostrare il contrario? La svolta è arrivata con l’idea di un gruppo di ricerca della University of Texas, guidato da Eric Hanushek. I ricercatori disponevano di campioni longitudinali adiacenti (sequenze di due coorti di studenti elementari e medi), e hanno potuto misurare la correlazione fra i loro rendimenti prima nello stesso anno (quando le coorti avevano insegnanti diversi), e dopo in anni adiacenti (quando le coorti passavano dallo stesso anno di corso e dallo stesso insegnante). (1) Il principale risultato osservato è che la correlazione era alta fra i rendimenti scolastici di due coorti esposte allo stesso insegnante (entrambe buone o entrambe scarse), mentre nello stesso anno solare la correlazione era praticamente zero (il risultato di una coorte non diceva nulla su quello dell'altra). (2) Questa era finalmente un'evidenza forte, anche se indiretta: i dati erano perfettamente compatibili con una realtà sottostante in cui l'elemento che fa la differenza è l'insegnante. Tuttavia, fino a questo punto, avrebbe potuto trattarsi di correlazione spuria, ovvero di un legame solo apparente tra fenomeni, in realtà spiegabili da eventi esterni non osservabili. Le tecniche econometriche correntemente utilizzate permettono però l'identificazione diretta dell'effetto dell'insegnante sull'apprendimento, grazie all’utilizzo di modelli a effetti fissi, che tengano conto delle regolarità ricorrenti associate ai fattori familiari, a quelli della scuola e per l’appunto quelli relativi all’insegnante. In un modello di questo tipo, in pratica, si riesce a misurare quanto sistematicamente migliora l’apprendimento di uno studente esposto all’attività didattica di un insegnante, al netto delle caratteristiche ricorrenti sia nella famiglia dello studente che nelle caratteristiche della scuola frequentata. Solo così ci si pone al riparo della classica obiezione che dice "non si può confrontare il contributo all’apprendimento dovuto a diversi insegnanti, perché gli insegnanti operano in contesti socio-culturali molto diversificati". È evidente che uno studente del liceo in media possiede più competenze di uno studente della scuola professionale, ma è meno evidente che le sue competenze crescano relativamente di più quando viene esposto a un buon insegnante, di quanto non possa per esempio accadere allo studente delle scuole professionali. Con questa metodologia i risultati attesi sono emersi: l'insegnante risulta influenzare il rendimento dello studente in misura apprezzabile. È difficile ottenere misure precise, ma il paragone con la numerosità delle classi rende l'idea: un incremento del dieci per cento nella qualità dell'insegnante equivarrebbe all'effetto quasi di un dimezzamento del numero di alunni per classe. Risultato addizionale, anche quello non inatteso, e che l'effetto insegnante va scemando con l'età dello studente.
La qualità della classe docente Allora tutto a posto? Purtroppo niente affatto. Perché siamo rimasti che la qualità dell'insegnante è certamente importante, ma non dipende dalle variabili che si possono influenzare più facilmente, tipo il suo livello di istruzione. L'insegnante brava è brava perché è brava, punto e basta; ognuno può dire la sua (la mia è che è brava quando ci mette il cuore), ma niente che sia facile da tradurre in misure concrete di intervento pubblico. Cosa suggerisce il gruppo di Hanushek? Testualmente, loro osservano che "the substantial differences in quality among those with similar observable backgrounds highlight the importance of effective hiring, firing, mentoring and promotion practices". Elegantemente, "segnalano l'importanza di" una politica del personale di tipo privatistico. I termini usati sono molto americani, ma in sostanza vogliono solo suggerire che "un più stretto legame fra rendimenti e premi alzerebbe alla lunga il livello della classe insegnante". Questo piaccia o no è difficile da contestare, sicché sembrerebbe più utile cominciare subito a pensare come farlo meglio, piuttosto che discutere se sia giusto farlo o meno. Il che non è una faccenda da poco, perché la "azienda scuola" ha centinaia di migliaia di dipendenti, non una dozzina. Resta la legittima aspirazione dell'insegnante a far bene, che è fra l'altro completamente in linea con gli interessi dei beneficiari del servizio da loro fornito. E a questa non si può semplicemente rispondere "Se ce la fai bene, altrimenti a casa". Come migliorare la qualità dell'insegnante è l'altro tema su cui potrebbe essere utile (ri)focalizzare la discussione alla luce della nuova evidenza empirica. Anche qui la strada è lunga e sarà inevitabile procedere in modo sperimentale. Giusto per dirne una, se qualcosa di impalpabile sta sotto la capacità di insegnare, cioè di trasmettere, comunicare nuova conoscenza, allora potrebbe essere utile mandare i giovani insegnanti a vedere da vicino, cioè da dentro la classe, cosa/come fanno i docenti più bravi, non per dieci ore, ma per mille (due al giorno per due anni). (1) In pratica, negli esperimenti cui i dati si riferiscono c'è un insegnante per anno (per eliminare l'effetto scuola i dati utilizzati riguardano solo scuole nelle quali esistono osservazioni per entrambi gli anni), e si procede così: si registrano i risultati di N classi "prime" ed N "seconde", in N scuole, per esempio nell’anno 2000, siano essi P(1),…P(N) ed S(1),…S(N). Poi nel 2001 si registrano i risultati delle ex-prime diventate seconde, diciamo SS(1),…SS(N). Si noti che essendoci un insegnante per anno in ogni scuola, P ed S non hanno lo stesso insegnante, mentre S ed SS sì. Le correlazioni misurate sono fra P ed S e fra S ed SS. (2) In termini delle variabili sopra definite, la correlazione fra S ed SS è alta (cioè in genere S(n) e SS(n) sono entrambe alte -- possibilmente l’insegnante della scuola è bravo -- o entrambe basse -- possibilmente l’insegnante è scarso; mentre la correlazione è bassa fra P e S (la relazione fra P(n) e S(n) non è regolare – possibilmente perché in alcune scuole è più bravo l’insegnante di P, in altre quello di S).
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