Uno degli ultimi paragrafi del saggio
di Norberto Bottani Insegnanti al timone (1) reca il titolo
“La riforma impossibile”. “Riformare la scuola, ci dice Bottani, è
diventata un’operazione pressoché impossibile, come dimostra quel
che è successo in Italia con Luigi Berlinguer, oppure in Francia con
la riforma proposta da Claude Allègre”.
A due anni di distanza dalla
pubblicazione del saggio, le generali e condivise resistenze alla
riforma Moratti ci paiono suffragare, anche se non totalmente (la
riforma in qualche modo avanza) questa affermazione.
Qui non intendiamo comunque
soffermarci sulla “riforma impossibile”, ma sulla “riforma
ineluttabile”.
La riforma “ineluttabile” è quella
totale trasformazione della scuola innestata dall’autonomia, varata
dal centro-sinistra e pienamente condivisa dal centro-destra, che ha
abrogato la legge Berlinguer-De Mauro, ma non ha mai messo in
discussione il decreto 275 sull’Autonomia.
La riforma, quella riforma, “è
diventata inarrestabile, come un fiume in piena..”, ci dice Bottani.
Ed essa “scorre in tutte le direzioni” (…). perché scelto “il mezzo
di locomozione”, ci si è scordati “d’indicare il punto d’arrivo”.
Qual è l’obiettivo che la classe politica si è posto innestando quel
processo? Citiamo ancora Bottani: … “migliorare le competenze in
lettura, scrittura, matematica e conoscenze scientifiche? Ripartire
diversamente gli oneri finanziari per l’istruzione? Diminuire
l’importo globale degli investimenti scolastici o delle spese
correnti per l’istruzione? Migliorare l’ambiente di lavoro dei
docenti e degli studenti? Aumentare le motivazioni per
l’apprendimento scolastico?… “ Bottani elenca una lunga serie di
interrogativi che non hanno risposta. E che la richiederebbero,
invece, per evitare che il corso del fiume si frantumi in mille
rivoli. Per evitare, soprattutto, che il sistema dell’autonomia si
cristallizzi in una direzione essenzialmente burocratica e si ponga
come obiettivo unico la propria sopravvivenza.
Fenomeno già innescato e ormai sotto
gli occhi di tutti.
Con quale fine si opera infatti ora
nelle scuole autonome se non per quello di salvaguardarne la
“floridezza” (concepita in termini puramente quantitativi: numero di
studenti-clienti; numero di docenti erogatori del servizio) e quindi
la sopravvivenza? Si tratta di uno scopo oramai tacitamente
accettato e condiviso, che innesta quel mostruoso meccanismo
dell’offerta allettante che dà vita alla ‘scuola progettificio’.
Mele marce dell’autonomia, i mille
variegati progetti delle nostre scuole minano il concetto di scuola
intesa come luogo delle conoscenze e della formazione. Ne sanciscono
la deriva, la sua trasformazione in ‘altro’, l’asservimento alle più
variegate istanze extra culturali, la pretesa di potere sanare
‘mali’ che vanno prevenuti e curati altrove.
Sanciscono, in una parola, la
mutazione genetica della scuola ed il suo crollo. Come osserva
Fabio Bentivoglio (2), “la competizione tra le scuole si svolge sul
terreno… delle immagini, delle lusinghe per attrarre ‘utenti’, degli
intrecci con i poteri territoriali, quindi sul piano utilitario,
dell’immagine, cioè in una dimensione che non ha niente in comune
con il linguaggio e lo spirito della cultura”. La competizione
germina sul fango, trascinando nella gara i docenti e distruggendo
la loro dignità sociale.
In mancanza di un obiettivo
chiaramente esplicitato dalla classe politica, e in considerazione
del fatto che il treno dell’autonomia pare inarrestabile a breve
(3), è possibile allora pensare per lo meno ad una correzione di
rotta? Se il POF è il vulnus dell’autonomia e se esso si sostanzia
nella progettualità, non è possibile pensare ad una progettualità
coerente con i fini della scuola? Una progettualità che non faccia
propria la categoria imperante del “tutto culturale” (4) e “che non
inverta il rapporto fisiologico fra normalità curriculare e attività
integrative”, come chiedeva la Commissione Nova Spes (5)?
E’ ben vero che i progetti presentano
l’innegabile attrattiva di permettere l’integrazione di un magro
stipendio, ma le stesse opportunità potrebbero essere date da
un’offerta di qualità (così si direbbe ora, con linguaggio
mercantile), che faccia propria l’esigenza di porre come fine
primario quello che Bottani pone in testa al suo elenco di domande:
“migliorare le competenze in lettura, scrittura e conoscenze
scientifiche”.
Resta il problema della competizione.
Può una scuola competere sul piano qualitativo culturale –
certamente meno vistoso e meno allettante - senza ricorrere a
prodotti civetta e ad una pubblicità giocata unicamente
sull’immagine? Certo, a breve ciò può creare dei problemi, ma alla
lunga probabilmente paga.
L’operazione scomposta e disordinata
che fa proprio l’imperativo “offriamo di tutto e di più” mostra già
qualche incrinatura, come sembra dimostrare il destino di molti
istituti.
Nessuna operazione anti-riforma ha
senso se non si avvia una resistenza interna alle scuole, una
resistenza non giocata sugli slogans, ma fondata sulla
consapevolezza che la scuola ha da essere prima di tutto scuola. Ed
è qui che si innesta veramente, e al di fuori delle mistificazioni
semantiche di cui si nutrono le riforme, il senso della dignità
della professione. Tutto il resto è gioco politico.
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Insegnanti al timone. Fatti e parole
dell’autonomia scolastica. Il Mulino, Bologna 2002. In questo
saggio Bottani avanza molte riserve sull’autonomia anche se
ritiene di doversi astenere – per correttezza scientifica – dal
dare un giudizio definitivo. Giudizio che sarebbe possibile solo
in possesso di dati sugli esiti dell’autonomia, dati che a tutt’oggi
non sono disponibili. Tutte le citazioni riportate nell’articolo
sono tratte dal capitolo conclusivo.
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Il disagio dell’inciviltà. Un insegnante
nella scuola dell’autonomia, C.R.T., Pistoia 2000, pag. 33.
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Anche perché essa si coniuga con la
globalizzazione. Scrive Bottani nel saggio citato: “La
globalizzazione indebolisce la presenza e il ruolo dello Stato nel
campo scolastico e invece rafforza indirettamente tutte le
modalità di regolazione locale della produzione di capitale umano
e di competenze. La mondializzazione dei mercati nel
mondoglobalizzato si declina dunque assai bene con la
contestualizzazione della scuola”.
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L’espressione “tutto culturale” è di Alain
Finkielkraut, che nel suo saggio La défaite de la pensée (Gallimard,
1987), rileva come sia diventato normale definire culturali delle
attività in cui il pensiero non ha alcun posto. Famosa la sua
frase “ purché sia firmato, un paio di stivali vale quanto
Shakespeare”. Ad indicare quella confusione che eleva la
totalità delle pratiche culturali al rango delle grandi creazioni
dell’umanità. E’ su questo terreno che germinano le proposte
riformistiche delle ultime legislature.
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Nel 2000 la Fondazione Nova Spes (Fondazione
internazionale per la promozione dello sviluppo globale della
persona e della società) fece una “Proposta per la
riqualificazione della scuola” che metteva fortemente in
discussione Il Riordino dei Cicli berlingueriano. Della
Commissione fece parte anche il Centro Studi Gilda. Il materiale
relativo ai lavori della Commissione è tutt’ora reperibile
nell’archivio del Centro Studi (www.gildacentrostudi.it).