Il portfolio: un nuovo tentativo di imporre ai docenti italiani una pedagogia e una didattica di Stato
“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico…”. L’introduzione del “portfolio” nella scuola italiana, con lauto contorno di retorica modernista, riporta alla mente la vicenda di un’altra infelice stagione del presunto riformismo di casa nostra: quella che fra gli anni ’80 e ’90 vide dispiegarsi in grande stile il tentativo di imporre alle scuole italiane – in particolare alle elementari, alle medie inferiori e ai “bienni Brocca” – la cosiddetta “didattica per obbiettivi”. Presupposti ideologici e pedagogici: la “centralità dell’allievo”; la diversità degli stili di apprendimento; il passaggio dal ruolo del docente “trasmissivo” (di cui si faceva regolarmente la caricatura) a quello di “facilitatore degli apprendimenti” attraverso una “didattica laboratoriale”; l’affermata necessità di una programmazione super-individualizzata, cioè la possibilità di garantire i progressi di ciascun ragazzo stabilendo punti di partenza, obbiettivi intermedi e obbiettivi finali differenziati; la critica a una valutazione che pretendesse di trattare tutti con lo stesso metro; l’assioma secondo il quale la bocciatura è in ogni caso un fallimento della scuola. Questi e altri presupposti si traducevano nella pretesa di una programmazione passo-dopo-passo di qualsiasi attività didattica, che non lasciasse nulla al caso o all’imprevisto. Le valutazioni in itinere dovevano poi sfociare nella famigerata scheda a 44 obbiettivi delle elementari e in quella poco meno complessa delle medie (Quadro 1, Quadro 2 e compagnia). Con una vera alluvione di corsi di aggiornamento, spesso obbligatori, a base di gremitissime liste di sotto-obbiettivi, si tentò di indottrinare gli sventurati insegnanti. Completarono il quadro un’imponente produzione di testi scolatici zeppi di prove di ingresso e di griglie ammazzatesti, nonché registri dei professori che avrebbero richiesto la collaborazione di intere equipe di osservatori della classe. Quella che Guido Armellini ha chiamato l’ossessione valutativa ha costretto una generazione di docenti, presuntivamente inabili a insegnare se non sorretti da questa armatura prefabbricata, a un’infinita serie di frustranti tentativi di adeguarsi o a una continua lotta per schivare almeno il peggio. Si sono tenute innumerevoli riunioni di programmazione disciplinare e interdisciplinare rivelatesi quasi sempre inutili. Si sono perse decine di ore pro-capite in estenuanti trascrizioni su schede e registri. All’origine di questa imponente operazione politico-culturale c’era la lobby che faceva e fa capo alle facoltà di scienze dell’educazione, agli IRRSAE e ai sindacati confederali e che ha ispirato uno dopo l’altro i Ministri della Pubblica Istruzione. La maggiore colpa di questa lobby è stata quella di aver disconosciuto in radice l’esistenza di risorse professionali in ogni docente serio e la possibilità di potenziarle non in modo dirigista e paternalistico, ma promuovendo in ogni scuola le occasioni di libero confronto delle esperienze, come avviene in ogni contesto scientifico e professionale, in cui il metodo seminariale e la comunicazione dei risultati sono i metodi privilegiati. L’obbiettivo unico era quello di diffondere capillarmente una pedagogia e una didattica di Stato, trasformando in suoi esecutori dei docenti considerati in maggioranza impreparati e spesso neghittosi. Si è trattato in sostanza di una vera e propria campagna di rieducazione. Gli insegnanti si sono divisi in una maggioranza in difficoltà, ma sostanzialmente passiva o rassegnata per mancanza di alternative; in un’agguerrita minoranza di sostenitori (in genere di area Cgil), a volte propensi a colpevolizzare i colleghi o a trattarli con sufficienza; e in un’esile minoranza critica, che si opponeva a tutto questo per incoercibile buon senso o a partire da una più matura coscienza della natura professionistica del proprio mestiere. I professionisti, infatti, altro non sono che esperti in una branca del sapere, a cui un cittadino può affidarsi per guarire da una malattia, stipulare validamente un contratto, costruire una casa ben fatta, far istruire i propri figli. Mentre nelle mansioni di tipo esecutivo è il “superiore” a stabilire dettagliatamente come fare, non c’è nessuno che può prendere meglio del medico, del notaio, dell’architetto e dell’insegnante le decisioni migliori per un caso specifico. E’ quella che si chiama “autonomia professionale”, nella quale (detto tra parentesi) sta la radice del diritto-dovere di elaborare un codice etico-deontologico. Nel caso dell’insegnante questo non può significare altro che spetta a lui decidere in merito alla metodologia da adottare, in generale e nei singoli casi che necessitino di un approccio diversificato. Ciò nel rispetto di alcuni vincoli, tra cui i programmi e gli obbiettivi generali dell’ordine di scuola in cui opera. Ora è evidente che il portfolio non è solo, come viene di continuo sottolineato dai suoi fautori, un diverso e più completo sistema di documentazione degli apprendimenti, ma comporta una serie di scelte operative attorno alle quali finisce per ruotare l’intera attività didattica. Una delle idee di fondo è che ciascun allievo viene aiutato a costruire un suo personale itinerario didattico. Questo implicitamente svaluta la scuola come espressione della collettività e tende a modificare profondamente il “mandato sociale” degli insegnanti, a mio avviso svalutandone il ruolo e l’autorità. Tuttavia come “filosofia” didattica è certamente una delle possibili opzioni ed è legittima finché rientra nelle libere e responsabili scelte del singolo docente; ma il punto è che non può essere imposta, se non ledendo gravemente la libertà degli insegnanti sul piano del metodo. Del resto, l’idea giacobina che a forza di editti si possa costringere un docente a lavorare meglio è semplicemente irrealistica, come in ogni mestiere in cui la qualità prevalga di gran lunga sulla quantità. Concludo sottolineando come sia evidente il grave danno provocato dalla linea dello scontro frontale sulla riforma, seguita in pratica da tutto lo schieramento sindacale appiattito sulle esigenze dell’opposizione politica. Uno scontro a base di anatemi, pregiudizi e caricature, che ha impedito un serio e rigoroso confronto nel merito delle singole questioni. Nel frattempo, paradossalmente, si è andato elaborando, àuspici Bertagna e Maragliano una convergenza di fondo tra berlingueriani e morattiani, che prova la sostanziale continuità e omogeneita ideologica dei due schieramenti in campo. Giorgio Ragazzini |