Origini del dibattito sul federalismo

e ruolo delle regioni nella gestione della scuola.

 

di Mario Quaranta, dall'ADI 17/1/2005

 

Riforma costituzionale e scuola

•  La riforma della costituzione italiana in senso federalista, già approvata in prima lettura dal Parlamento, ha posto più che mai all'ordine del giorno il problema del rapporto scuola-regione, dal momento che alle regioni vengono attribuiti ampi poteri su tale istituzione.

•  Il nuovo Titolo V della Costituzione ha già introdotto importanti novità nella direzione di una decentralizzazione della scuola, lasciando in capo allo Stato solo le “norme generali”, i “livelli essenziali delle prestazioni” e i “principi fondamentali”.

•  Stiamo però vivendo un paradosso: mentre si prefigura una riforma costituzionale che amplia ulteriormente i poteri delle Regioni, non si dà ancora attuazione alla decentralizzazione già decretata dal nuovo Titolo V, al punto che per più volte nel corso del 2004 è dovuta intervenire la Corte Costituzionale per ristabilire le competenze regionali.

•  Tutto questo richiama l'opportunità di avviare una discussione molto più approfondita di quanto non sia finora avvenuto sui poteri regionali in materia di istruzione. Si tratta infatti di una questione che, comunque risolta, modificherà la gestione della scuola ancora fortemente centralizzata sia sul piano burocratico-amministrativo, sia su quello dei programmi.

 

L'importanza di un'analisi storica

•  Consideriamo importante aprire questa analisi, soffermandoci prima di tutto sui termini storici in cui si è posta l'opzione centralismo-federalismo all'origine dello Stato unitario, e sui problemi che ha sollevato. In particolare, sottolineiamo due aspetti della questione:

•  La possibile scelta federalista è durata fino ai primi anni dell'Unità del Paese, l'espace d'un matin, e quella centralistica non è stata adeguatamente preparata, ma dettata da una congiuntura politica eccezionale.

•  Alcuni studiosi distinguono un federalismo "antropologico" da uno "territoriale":

•  il primo scaturisce da una considerazione complessiva della storia d'Italia, del suo territorio, delle diverse esperienze storiche, politiche, culturali. Esso è stato espresso da Giuseppe Zanardelli, Angelo Messedaglia e la sua scuola;

•  il secondo punta essenzialmente a un'architettura giuridico-istituzionale. Esso è stato rappresentato in modo emblematico da Carlo Cattaneo, che è stato un riferimento essenziale nel dibattito federalista dell'Otto-Novecento.

•  Entrambi i modelli di federalismo, insieme a quello neoguelfo, sono stati storicamente sconfitti, e ha prevalso quello centralista.

•  Il modello di federalismo proposto ora fa parte senz'altro del modello territoriale, da ciò i suoi limiti e le difficoltà che dovranno essere affrontate e risolte nella progettazione della scuola a livello regionale; un terreno nuovo di esperienze, cui non possono dare risposte decisive quelle di altri Paesi europei come la Gran Bretagna e la Spagna, o di Paesi federalisti come la Germania.

•  Vedremo infine quali problemi pone oggi l'opzione federalista, nel momento in cui l' Unione Europea sta approfondendo la sua politica unitaria con il varo una propria costituzione

 

L'ipotesi neo-guelfa e la sua eclissi

•  Secondo quella che viene considerata la ‘costituzione materiale', sottesa alla sua formalizzazione giuridica in dichiarazioni costituzionali, la formazione costituzionale moderna più adeguata alla penisola italiana sarebbe stata quella confederale o federale. Ciò fu pensato agli inizi della modernizzazione politico-giuridica della penisola dopo la Rivoluzione francese del 1789; essa si affermò dopo l'invasione napoleonica e quindi dalla nascita delle cosiddette “Repubbliche giacobine” italiane del triennio 1797-1799.

•  Il progetto confederale dei neoguelfi, monarchici, cattolici liberal-moderati piemontesi, dell'abate Vincenzo Gioberti, del marchese Massimo D'Azeglio, di Felice Ballo, e altri minori simpatizzanti di altre regioni, si inserì con un rapido e notevole successo ideologico tra il 1844 e i primi mesi del 1848 (in cui crollò definitivamente) essendo adeguato, allora, a quel panorama storico. Esso rispondeva bene a una tendenza compromissoria generale che mirava a contemperare la conservazione della pluralità dei principati pre-moderni esistenti nella penisola, con una loro moderata modernizzazione costituzionale, in una aggregazione nazionale italiana di tipo confederale, il cui equilibrio sarebbe stato garantito sia dal primato politico-militare della monarchia sabauda, sia dal primato morale e civile del Papato.

•  Ciò che determinò il rigetto integrale dell'ipotesi neoguelfa fu l'irrigidimento della Francia e dell'Impero Austro-ungarico per diverse ma convergenti ragioni di stato e di potenza. Ciò confermò che un qualsiasi progetto di indipendenza e unificazione politica nazionale nella penisola italiana non poteva prescindere da un'intesa con le potenze europee.

 

Una scelta centralista imprevista

•  La prima, essenziale considerazione storica è che nessuna forza politica risorgimentale e nessuna corrente aveva previsto e voluto, con anticipo di qualche anno, quel particolare ordinamento giuridico di Stato monarchico-nazionale unitario, esteso a tutta la penisola.

•  Non solo non era stato previsto e voluto lo Stato nazionale unitario e monarchico, ma non era nemmeno stato progettato prima quello schema di forte centralismo politico-territoriale e amministrativo, secondo un modello francese napoleonico, attuato dal 1861 al 1865 dai governi della Destra storica liberalmoderata, post-cavurriana. 

•  Il modello centralista francese napoleonico non faceva parte della tradizione politica e culturale liberal-moderata risorgimentale. Il conte di Cavour (e i monarchici liberal-moderati cavurriani piemontesi e associati) era anglofilo negli orientamenti di politica economica, in cui affermò dagli anni '50 il liberoscambismo commerciale. Sul piano costituzionale e amministrativo, i cavurriani non erano affatto assertori di un centralismo rigido, anche amministrativo, di modello cesarista napoleonico. Seguivano piuttosto i modelli dei liberal-moderati francesi nelle tendenze di Benjamin Constant e di Guizot.

•  Lo schema di forte centralizzazione nell'organizzazione politico-territoriale e amministrativa, secondo il modello francese napoleonico, non fu dunque opera del conte di Cavour (deceduto nel 1860), ma dei governi immediatamente successivi, nel quinquennio 1860- 1865, in particolare per opera del barone toscano Bettino Ricasoli (1861) e del generale Alfonso Lamarmora (1865).

•  Cavour , ancora alla fine del 1859, in coerenza con gli accordi di Plombières (1858), pensava piuttosto a tre grandi formazioni statali nella penisola: del Nord, del Sud e del Centro, in cui era prevista la continuità di un residuo Stato pontificio circoscritto al Lazio, di cui la Francia era stata la garante.

•  Cavour non solo non prevedeva uno stato nazionale unitario esteso alla penisola, ma restava estremamente diffidente verso l'iniziativa politico-militare garibaldina di liberare il Regno delle Due Sicilie, sapendo che a questa impresa era sottesa l'ipotesi mazziniana di accendere e propagare, risalendo da sud al centro, una guerra rivoluzionaria di popolo che avrebbe imposto la Repubblica anche al Nord.

•  Re Vittorio Emanuele II fu invece affascinato dal miraggio di diventare, d'improvviso e insperatamente, sovrano di un nuovo grande stato nazionale in Europa, reso possibile dall'appoggio diplomatico decisivo assicuratogli dalla Gran Bretagna , la quale vedeva due vantaggi:

o      l'apertura di un nuovo, importante mercato alle sue esportazioni industriali, con l'estensione a tutta l'Italia del regime di liberoscambismo commerciale, già introdotto in Piemonte

o      la funzione equilibratrice di un Re italiano in rapporto all'espansione francese in Africa

•  Vittorio Emanuele II, con l'assicurazione dell'appoggio della diplomazia inglese, diede dunque il suo benestare preventivo e segreto a Garibaldi, scavalcando il suo primo ministro, il conte di Cavou. Garibaldi potè così sbarcare in Sicilia, protetto dalla squadra navale britannica.  

•  Con più o meno riserve mentali, di buon grado o meno, Garibaldi nel 1860 e Mazzini, profeta più disarmato, poi, subordinò l'ideale democratico-repubblicano risorgimentale alla priorità dello Stato-Nazione unitario. La subordinazione garibaldina non fu di totale rinuncia ai postulati risorgimentali, ma certamente sanzionò, in quel momento cruciale di transizione, un compromesso storico decisivo a favore del programma del blocco monarchico liberal-moderato.

•  Cavour fu altrettanto deciso e abile del Re. Respingendo qualsiasi altra formula, procedette a far ratificare giuridicamente le annessioni militari dei territori dell'Italia centrale e meridionale con i plebisciti, che sanzionarono con schiaccianti maggioranze i ‘fatti compiuti' di fronte all'insieme internazionale degli Stati, superando definitivamente all'interno gli indugi e le incognite di un eventuale Congresso costituente. Il nuovo Regno d'Italia nacque, giuridicamente, come un'estensione territoriale di quello di Sardegna. Il Re continuò a chiamarsi Vittorio Emanuele II, e il nuovo Stato nazionale unitario fu proclamato al parlamento subalpino di Torino, che afferrò l'occasione anche per acclamare Roma capitale d'Italia, come sarebbe diventata il 20 settembre 1870.

•  Paradossalmente, il repubblicanesimo risorgimentale mazziniano-garibaldino fu sconfitto e subordinato all'egemonia monarchica liberal-moderata piemontese, in base proprio al primato di quella idea-forza dell'unità nazionale di tutta la penisola, che era stata una rivendicazione originaria non dei liberal-moderati, ma delle correnti repubblicane più democratiche.

Questo è stato, in rapida sintesi, il percorso politico-istituzionale che ha portato alla scelta centralistica; scelta che è stata contestata da gruppi politici minoritari nel corso dell'Ottocento, senza alcuna possibilità di uno sbocco politico.

 

La costituzione del 1948: continuità del centralismo

•  Dopo la parentesi del regime fascista, che accentuò il centralismo statale, la nostra Costituzione riconfermò la scelta centralista.

•  Nei dibattiti della Costituente ci furono sì posizioni federaliste, ma il più coerente federalista, Emilio Lussu, dovette rinunciare a portare avanti le sue posizioni, del tutto minoritarie. Non solo, fu anche ampio lo schieramento anti-regionalista.  

•  In ogni caso le regioni furono previste, anche se, come noto, sono state pienamente realizzate dopo quasi un trentennio dalla promulgazione nel 1948 della Costituzione. Furono istituite delle regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Vai d'Aosta, Trento-Bolzano), che configurarono, comunque, delle eccezioni periferiche al modello dello Stato-Nazione che continuava dal Regno d'Italia.

•  Le Regioni, che nelle intenzioni dei costituenti avrebbero dovuto essere una concessione a un principio di decentramento amministrativo, nella realtà ebbero piuttosto la funzione politica di consolidare tacitamente un “compromesso storico”, ripartendo rispettive sfere di sottogoverno di maggiore influenza, per aree regionali “bianche” e aree regionali “rosse”, dove già tali influenze politiche elettorali preesistevano, si pensi ai casi esemplari del Veneto e dell'Emilia. Una delle conseguenze di tale compromesso sarebbe stato, secondo alcuni critici, un incremento dell'assistenzialismo. In ogni caso con tale intesa compromissoria, il modello centralista dello Stato-Nazione non fu superato.

•  In conclusione, il risultato pratico, secondo alcuni storici, è stato quello non di attenuare ma piuttosto di duplicare lo statalismo centralista, dilatando la burocrazia e aumentando, e non diminuendo, le distanze tra la gestione della cosa pubblica e la società civile. A tale proposto lo storico Zeffiro Ciuffoletti afferma: “La riforma fiscale del 1971-73, azzerando l'autonomia fiscale degli enti locali, trasformandoli in centri di spesa irresponsabili e trasferendo tutto il potere fiscale allo Stato centrale ha generato un circuito perverso in parte responsabile dello spaventoso debito pubblico italiano, di gran lunga il maggiore dei paesi dell'Unione Europea. Gli sviluppi recenti del ‘regionalismo cooperativo', sommati alla mancata riforma degli apparati centrali, hanno finito per produrre altre disfunzioni con la duplicazione delle competenze, la ulteriore dispersione delle risorse e la fuga delle responsabilità. In sostanza, l'esperienza regionale italiana è nata e si è concretizzata secondo un modello di deresponsabilizzazione finanziaria. Lo stesso può dirsi delle autonomie comunali, dove da un ventennio sono in vigore le pratiche di governo che esaltano quasi esclusivamente la capacità di spesa e di intervento” (Aa.Vv., Il federalismo tra filosofia e politica, Nuoro 1998, p. 273). In ogni caso, né l'ordinamento regionale attuale, né un federalismo fiscale su cui potrebbe convergere un largo schieramento parlamentare, attuerebbero, di per sé, un modello federale di Stato-Nazione.

 

Regioni e Scuola: tre tesi in discussione

1) La scuola e la formazione dell’”italiano”

•  Fra i molti dubbi che ha sollevato l'attuale progetto di federalismo, quello che riguarda la gestione della scuola da parte delle regioni è rimasto in sordina, perché questa fa già parte del nostro ordinamento, anche se i modi e i tempi sono ancora da definire. Da ciò l'opportunità di aprire un dibattito, dal momento che si tratta di un aspetto decisivo.

•  Uno dei leitmotiv dell'opposizione parlamentare contro la gestione della scuola da parte delle Regioni, è che essa comprometterebbe l'unità del Paese, con la legittimazione dei “localismi” e conseguenti conflitti inter-regionali.

•  Va subito detto che il ruolo delle regioni all'interno di un'Europa unita è un problema su cui discutono studiosi di tutta Europa. A tale proposito basterà fare un riferimento al convegno di alcuni anni fa (Enzo Sciacca, a cura di, L'Europa e le sue regioni, Palermo 1999) per renderci conto dell'importanza di tale problema.

•  Occorre comunque aggiungere che nel contesto europeo, la situazione italiana presenta caratteristiche che la contraddistinguono dagli altri Paesi. Ciò per almeno due motivi:

-         l'odierno Stato unitario è stato unificato solo da 130 anni, e in modi e tempi imprevisti da tutte le forze politiche, con interventi decisivi di Paesi stranieri (Inghilterra e Francia),

-         le Regioni hanno costituito per secoli dei veri e propri stati, per cui l'unificazione politica è avvenuta attraverso l'imposizione di un modello statuale, quello piemontese, che ha provocato conflitti prolungati nel Nord e soprattutto nel Sud.

Da ciò il rilievo abnorme che è stato assegnato alla “cultura” come tramite di un'unificazione intellettuale, considerata essenziale al fine di dare una ben definita fisionomia unitaria all'Italia. In altri termini, il centralismo politico e amministrativo è stato integrato da un centralismo culturale, e la scuola è stata il tramite fondamentale nella formazione dell'“italiano”, com'è agevolmente riscontrabile nei tre modelli che sono stati proposti, ma più spesso imposti, dai tre fondamentali regimi che si sono succeduti in Italia dall'unità nazionale a oggi: liberale, fascista-autoritario, liberal-democratico.

 

Regioni e Scuola: tre tesi in discussione

2) "Asse culturale" e culture regionali

•  Una delle discussioni che ha coinvolto il personale culturale dell'Italia unita è stato proprio quella di individuare, fra le molte componenti del nostro patrimonio storico, quale considerare l'asse culturale del Paese.

A titolo esemplificativo, si può dire che nel campo della tradizione letteraria, che è centrale e prioritaria nella formazione dell'“italiano”, Francesco De Sanctis, con la sua Storia della letteratura italiana ha delineato il paradigma di tale tradizione rimasto pressochè inalterato nella cultura e nella scuola italiana fino ai nostri giorni (ovviamente con le integrazioni e aggiornamenti resi necessari). Nel campo della filosofia il positivismo ha dato la sua impronta ai programmi scolastici di questa disciplina; e il discorso può estendersi anche a discipline scientifiche; basterebbe ricordare quale dibattito e quali scelte sono state compiute nell'insegnamento della matematica, un campo in cui i matematici italiani sono stati all'avanguardia in Europa.

•  Ora, l'attribuzione alle regioni di una parte del curriculum scolastico, cosa comporta? A questo punto si apre la discussione, avendo presente che la situazione italiana è caratterizzata da un policentrismo culturale, opposto, ad esempio, al monocentrismo francese, dove Parigi costituisce il centro dominante pressochè esclusivo della cultura, seppure oggi in forme meno esclusive.

•  D'altra parte, non siamo all'anno zero; nel corso del Novecento, ad esempio, le culture regionali sono state valorizzate in vari momenti della nostra storia culturale; dalla “scoperta” delle città e delle regioni italiane compiuta dalla rivista “La Voce”, sorta nel 1908, abbiamo assistito a periodiche riscoperte di scrittori, scienziati, poeti, riviste, la cui incidenza è stata rilevante nell'ambito delle singole regioni; una cultura non adeguatamente conosciuta, e soprattutto non entrata nel circuito culturale nazionale, e perciò rimasta, di fatto, estranea al patrimonio conoscitivo comune, a un ethos condiviso. Basterebbe citare, a tale proposito, il fenomeno dei poeti cosiddetti “dialettali”, che solo molto tardi sono stati, per così dire, legittimati culturalmente, mentre fenomeni di utilizzo geniale di dialetti, come l'esempio rappresentato da Gadda, costituiscono dei “casi” alti e circoscritti. Esso attesta come il radicamento nel patrimonio linguistico “dialettale” sia un motivo non di arretratezza o di mero ossequio a un mondo arcaico, ma di vera e propria creatività culturale. (Un'altra analoga esperienza è rappresentata dall'attività letteraria e saggistica di Pier Paolo Pasolini).

•  Non solo: nel 1967 fu pubblicato un libro di Carlo Dionisotti, in cui l'autore riserva una particolare attenzione “ai propositi e successi degli uomini nelle condizioni proprie in cui si trovarono a scrivere, piuttosto che all'intimità e alle risonanze lontane o, come si usa dire, all'universalità delle loro scritture ”(Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, 1967, p. 12). Da ciò il privilegiamento accordato alla presenza e al radicamento regionale della letteratura, alla storia delle scuole, delle biblioteche, degli editori, degli sviluppi linguistici e filologici. Un testo, questo, che ha aperto nuove vie all'indagine e alla ricostruzione critica della nostra tradizione letteraria.

•  Un capitolo a parte è rappresentato dal “problema della lingua”, del suo insegnamento nella scuola e del ruolo dei dialetti. Tullio De Mauro pubblicò nel 1969 nove brevi antologie rivolte alla scuola, Lingue e dialetti di tutte regioni italiane, pubblicati da La Nuova Italia di Firenze; il Giscel di Bologna organizzò nel 1976 un convegno su Lingua, dialetti e scuola, i cui atti sono stati pubblicati dal Consorzio provinciale pubblica lettura. Già allora fu espressa l'idea che la conoscenza del patrimonio dialettale del nostro Paese non era un rêpechage arcaico di tradizioni in via di estinzione o spente, ma un modo per rendere consapevoli gli italiani della loro cultura linguistica che continuavano ad usare nella comunicazione quotidiana, per poterla superare, acquisendo gli strumenti linguistici, ossia conoscitivi, forniti dalla lingua italiana. Ma altri potrebbero essere i riferimenti a un dibattito e a una produzione editoriale su tale problema che è continuata nel tempo, e che ha caratterizzato una stagione nel rinnovamento della “cultura scolastica”.

•  Un discorso analogo potrebbe essere fatto per la storia, dove la produzione di testi, ricerche, antologie, riviste di storia delle singole regioni italiane conosce un enorme, ininterrotto sviluppo. Infine, numerose sono ormai le enciclopedie e le collane di storia delle città e delle regioni.

 

Regioni e Scuola: tre tesi in discussione

3) Teoria della complessità e abbandono del centralismo

•  Per comprendere la novità rappresentata nella scuola dall'attribuzione della gestione della scuola alle regioni, ci soccorre la teoria della complessità, la quale ci fornisce un modello esplicativo per giustificare l'abbandono del centralismo della cultura, che è stato dominante nella scuola italiana, cui è stato demandato, come abbiamo accennato, il compito di assicurare una omogeneità culturale nella formazione dell'italiano.

•  Nella cultura italiana odierna la teoria della complessità è largamente presente in pressochè tutti i campi del sapere; l'idea centrale di questo nuovo paradigma, espresso da uno dei teorici più noti, Mauro Ceruti, è che la scienza classica è la scienza del ripetibile, atemporale, invariante, pertanto il residuale (il non razionale) è solo apparente, mentre invece, ciò che era residuale è ora risultato decisivo: da ciò la necessità di ridefinire, attraverso la nozione di complessità, i criteri della razionalità. In altri termini, il modello della “ragione classica” è fondato su un'idea di legge scientifica come luogo in cui si svela l'ordine nascosto, e a questa concezione causalistica dei fenomeni, in cui la legge ha un carattere prescrittivo, la teoria della complessità contrappone una concezione “vincolistica”, secondo cui “la storia naturale si delinea come una storia di produzione reciproca di vincoli e di possibilità attraverso la coevoluzione di sistemi viventi (autonomi) e dei loro ambienti, e dei differenti sistemi viventi (autonomi) all'interno di particolari ecologie” (Mauro Ceruti, Il vincolo e la possibilità , Milano, Feltrinelli, 1986, p. 18). In altri termini, i “vincoli” sono regole di un gioco che indicano ciò che non può succedere, non ciò che necessariamente succederà.

•  Così, la teoria della complessità costituisce un'alternativa al modello positivistico e neopositivistico di razionalità; “le nuove strategie costruttive della conoscenza contemporanea hanno messo in crisi”, dichiara Ceruti, “l'idea che l'universo categoriale della scienza sia unitario, omogeneo al suo interno, fissato una volta per tutte” (Ceruti, cit., p. 32). Il problema conoscitivo fondamentale non è più quello di trovare un momento di unificazione dei diversi punti di vista, ma piuttosto di legittimare differenti punti di vista, nella persuasione che tutti siano produttivi di nuove idee e nuove ipotesi. All'immagine classica di una razionalità capace, attraverso sintesi sempre più ampie, di esaurire la comprensione del mondo, si contrappone, ora, quella di una ragione “plurale”.

•  La teoria della complessità consente, dunque, di legittimare sia l'abbandono di un modello unitario, omologante, della cultura sia, conseguetemente, una nuova impostazione del problema dell'apprendimento, con l'utilizzazione, ora, non più delle categorie della pluridisciplinarità o dell'interdisciplinarità che, di fatto, fornivano strumenti più sofisticati per l'apprendimento di una cultura il cui impianto unitario non era messo in discussione, ma di quella della transdisciplinarità, la quale mira alla comune costituzione degli oggetti di ricerca, e degli strumenti del pensiero che questi oggetti richiedono. Il nuovo modello di apprendimento consente non un mero accostamento tra le diverse discipline, né un loro uso plurimo su uno stesso oggetto di conoscenza, ma una costruzione della conoscenza in cui il soggetto ha un ruolo attivo e produttivo. Oggi siamo di fronte a sfide in diversi campi (della tecnologica, dell'ecologica, della globalizzazione, ecc.); la sfida della complessità costituisce, in un certo senso, la base conoscitiva di tutte le altre sfide; essa richiede l'individuazione degli ostacoli che ci impediscono la progettazione di questa nuova forma di conoscenza, imponendoci uno sforzo trandisciplinare e interculturale per un'educazione della complessità umana (Mauro Ceruti et altri, Pensare la diversità , Maltemi, Roma 1998).

•  Non solo: le idee prodotte dalla teoria della complessità possono essere usate nella progettazione di una nuova scuola saldamente ancorata al proprio territorio: “Le sfide ai nostri sistemi educativi - afferma Mauro Ceruti - dipendono in buona parte da intensi cortocircuiti fra le dimensioni locali e le dimensioni globali” (Gianluca Bocchi-Mauro Ceruti, Educazione e globalizzazione, Cortina, Milano 2004, p. 25). Oggi, continua Ceruti, le diversità culturali, regionali, urbane, sono considerate da ogni Stato non più un ostacolo ma una risorsa; inoltre, ogni conoscenza e valutazione dei grandi temi sollevati dalla globalizzazione, come ad esempio quelli ecologici, possono essere compresi adeguatamente attraverso “una buona fruizione degli ecosistemi locali”. In conclusione, “oggi non si tratta più di prosciugare l'identità delle culture locali. Si tratta, al contrario, di supportare l'unicità (e la complessità, cioè molteplicità) degli itinerari costitutivi di quelle particolarissime culture locali che stanno diventando gli individui del nostro mondo, esponendoli alla comunicazione reciproca con quelle culture altrettanto originali (singolari e complesse) che sono costituite da altri individui” (G. Bocchi e M. Ceruti, cit., p. 77). Ora, solo una profonda conoscenza del “locale” ci consente di comprendere il “globale”, e ciò vale particolarmente in questa fase in cui assistiamo all'eclissi dello Stato moderno, e alla scuola spetta l'arduo compito di formare il cittadino del mondo.

 

Conclusione

Uniti nella diversità

•  Oggi, con l'attribuzione di poteri alle regioni nel campo della scuola, viene offerta un'occasione unica e irripetibile per creare un'effettiva unità culturale del Paese in termini sostanzialmente diversi da quelli “centralistici”, finora adottati da tutti i governi che si sono succeduti dall'Unità d'Italia ad oggi. Prima di tutto, occorre precisare che ogni regione non deve abdicare a questo intervento , demandandolo ad altre istituzioni; è un campo in cui essa può intervenire con un proprio progetto, e sottoporlo al confronto con tutte le forze culturali della regione.

La regione disporrà di una propria quota di ore da usare autonomamente, ma quale sarà il contenuto culturale dei programmi proposti da ogni regione?

•  A questo proposito abbiamo presente l'esperienza della Spagna, la cui “Legge organica di ordinamento generale del sistema educativo”, la LOGSE del 1990, stabilisce un potere tanto ampio per le Regioni, da prevedere che lo Stato stabilisca solo i contenuti minimi e che le Regioni gestiscano il 35% del curricolo (il 45% nelle regioni con propria lingua), con questa indicazione: “le Amministrazioni educative competenti stabiliranno il curricolo dei distinti livelli, stadi, cicli, gradi e modalità del sistema educativo, di cui faranno parte, in ogni caso, gli insegnamenti minimi” .

•  Nella situazione italiana, diversa e non ancora definita per quanto concerne le ore assegnate alle regioni (1) , non possiamo formulare ora un'ipotesi conclusiva. Ci sono diverse, possibili opzioni: da quella di una conoscenza della propria regione nel contesto della storia nazionale (come pare indicato dalla legge 53/03), a quella di un utilizzo delle ore disponibili nelle discipline in cui si riscontra un ritardo generalizzato rispetto a uno standard comune, e così via. Ci sono esigenze diverse e a volte confliggenti, e dovrebbe essere lasciato alle Regioni insieme alle scuole autonome di scegliere e decidere le linee di intervento, tenendo presente lo sfondo odierno in cui si colloca l'attività d'insegnamento. Infatti, in una situazione di mondializzazione e globalizzazione, c'è innanzitutto l'esigenza che tutti possiedano le competenze chiave o essenziali per inserirsi positivamente nella vita attiva, e contemporaneamente non va trascurata l'esigenza di dare spazio a una conoscenza diretta della propria regione, del proprio territorio, delle proprie tradizioni, e di tutti quegli aspetti che caratterizzano l'identità prima di ogni italiano. Solo se tali conoscenze sono oggetto di analisi si può vivere in un mondo globalizzato, dove le identità territoriali e individuali si integrano con l'attuale dimensione globale della nostra esistenza.

•  Stabilire un rapporto equilibrato fra “locale” e “globale” è senz'altro difficile, nel momento in cui la globalizzazione tende “naturaliter” a una omologazione secondo un “pensiero unico”. Ma di fronte a tale tendenza, il radicamento culturale territoriale può costituire un efficace antidoto o correttivo , tale da assicurare un rapporto dinamico e aperto alle esigenze diverse e anche confliggenti fra “locale” e “globale”.

 

Nota 1. Legge 53/03 art. 2: “I piani di studio personalizzati, nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, contengono un nucleo fondamentale, omogeneo su base nazionale, che rispecchia la cultura, le tradizioni e l'identità nazionale, e prevedono una quota, riservata alle regioni, relativa agli aspetti di interesse specifico delle stesse. Anche collegata con le realtà locali”