Piccola cronaca di un ordinario Portfolio.

di Gianfranco Claudione, dalla Gilda di Foggia, 17 dicembre 2004

 

 

Tengo il conto delle mie spese da persona prodiga, ma attenta.

Non posso dire che non perdo niente,

ma posso dire che cosa perdo e perché e come.

 

(Seneca, Lettere a Lucilio, I,1)

Il Portfolio esiste. Io l’ho visto, l’ho toccato, ho sfogliato le sue pagine. Prima credevo alla sua esistenza come credevo a quella degli U.F.O., ora no, ora ci credo. Per forza: l’ho compilato!

Ebbene sì, lo confesso: quando sono stato convocato a scuola di mia figlia (anni 6, classe I dell’era Moratti) per la compilazione del Portfolio, mi aveva preso una perversa tentazione di rimanere a casa (non solo quel giorno, tutto l’anno) e stare a guardare cosa sarebbe successo. Poi, le insistenze di mia figlia e un rigurgito di coscienza genitoriale che ha prevalso, ahimè, sulla “ragione professionale”, mi hanno vinto. Ci sono andato. Ora vi racconto.

Entro in classe, trovo 6 o 7 mamme convocate anche loro come me. Alcune sono affaccendate a scrivere su moduli ordinatamente fascicolati in austere cartelline in PVC, che dopo pochi minuti scoprirò essere il famoso Portfolio. Si consultano tra loro e poi scrivono, come scolaretti che svolgono un compito in classe troppo difficile. Rimango un paio di minuti fermo sulla soglia aspettando che qualcuno mi dica qualcosa. Una giovane maestra (decido dentro di me che è la tiùtor di mia figlia) si affaccenda facendo la spola tra i banchi, ritirando i moduli già compilati, o consegnando le penne a chi ne è sprovvisto. La osservo con una punta di commiserazione, poi mi pento e incrocio le dita, sperando che l’anno prossimo non tocchi anche a me fare la stessa cosa (insegno in un liceo). L’attesa si prolunga, chiedo a un’altra mamma – che so essere insegnante della stessa scuola che mia figlia frequenta – se sa che cosa avremmo dovuto fare. Mi risponde, tra rassegnata e divertita, che non lo sa, perché lei non ha la prima. Come dire: la destra non sa quello che fa la sinistra. Finalmente la tiùtor si avvicina. Mi porge una cartellina con su scritto a chiare lettere “Portfolio delle competenze” e si allontana. La speranza di una spiegazione si tramuta in disappunto, anche perché mi rendo conto che, per poter scrivere, devo far entrare i miei 110 chili per 1,85 di altezza in un banco che a malapena si adatta a mia figlia. Mi sacrifico e, come Houdini, riesco miracolosamente a sedermi.

Apro la cartella e ne estraggo i moduli. Ringrazio Dio di essere insegnante, perché riesco a capire abbastanza facilmente qual è il fascicolo che devono compilare i genitori. Lo apro, incuriosito dai tesori pedagogici che promette e comincio a rispondere. In cima, i dati anagrafici, e fin qui tutto normale. Poi… poi ecco la prima perla: «Legge giornali o riviste?» Perdiana, sono un po’ confuso, lo ammetto. Cerco disperatamente di ricordare se qualche volta ho visto mia figlia sfogliare il Sole24Ore o L’Espresso… In effetti, sì, una volta perse delle ore sull’Espresso, ma poi rammento che era solo per ritagliare le “A” maiuscole per incollarle sul quadernone da presentare il giorno dopo alla maestra. Così, senza esitazione, scrivo «Giornali o riviste per bambini» (e che diavolo mai potrà leggere una bimbetta di sei anni, ancorché vispa e intelligente? Mah…). Domanda successiva: «Che tipo di libri preferisce?». Diamine, ci risiamo! Scavo ancora nella memoria. Dunque, vediamo… classici della letteratura o della filosofia, direi di no. Saggi nemmeno, credo. Romanzi gialli o rosa, forse? Uhm, ci penso un attimo e poi decido per il no. Sconfortato, rispondo: «Libri di favole o storie per bambini», un po’ avvilito per la banalità della risposta.

Poi si passa alle domande esistenziali: «Parla mai del suo futuro con i genitori?» Perbacco, sì! Mi ha detto un mucchio di volte che da grande vuole fare la Sirenetta! Vale come risposta? Mah, forse no… allora rispondo: «Sì, ma solo per gioco», meglio rimanere sul generico… Ancora: «Quando studia sono presenti altri familiari?». Mi verrebbe di rispondere «No, la lasciamo tutti i pomeriggi sola in casa mentre io e la mamma andiamo a spassarcela!», ma poi prevale la prudenza e rispondo di sì, non vorrei trovarmi gli assistenti sociali a casa…

Continuo il mio slalom tra altre amenità del genere (chiedendomi se i compagni di classe di mia figlia hanno già letto Guerra e pace o la Recherche, o se anche loro sono fermi a Winnie the Pooh) e, dopo aver concluso, consegno il tutto alla tiùtor. Ma non è finita, perchè mi riconsegna un modulo: è la parte che avrebbe dovuto compilare mia figlia. Non me ne stupisco: come può una bimba di sei anni aver maturato la coscienza di sé necessaria per poter rispondere? Però non posso fare a meno di pensare che, allora, è tutta una mistificazione. Comunque, ormai sopraffatto dalla situazione, taccio e mi accingo a decidere quello che mia figlia pensa e sente.

Solo alla fine, posso parlare tre minuti con la tiùtor. Solo tre minuti, o giù di lì: «Da quest’anno abbiamo deciso di non fare più i colloqui come prima, non ce n’è il tempo». Chiedo: «Ma voi, ci credete, al Portfolio?» La tiùtor fa spallucce e dice, sconsolata: «E’ la riforma». Poi parliamo di mia figlia, e finalmente non devo più mettere crocette, ma posso raccontare una storia, disvelare un’anima infantile, confidare sentimenti, paure, fragilità. In tre minuti di relazione umana, dopo tante domande a cui inevitabilmente tutti avranno risposto in modo pressoché identico, mia figlia riacquista sorprendentemente una sua unicità di persona, e anche la tiùtor sembra ridiventare maestra, persona essa stessa, non più funzione: insomma, sia pure per 180 secondi (ci sono altri Portfoli da consegnare e raccogliere, e già i bidelli cominciano a indossare i cappotti), un padre e un’insegnante riescono a comunicare, a dirsi cose. Quei tre minuti riescono a riscattare un’ora inutile e superflua e mi fanno tornare a casa più sollevato. Anche se, passeggiando sotto una pioggerella fine e gelida, non riesco a fare a meno di pensare che, davvero, la situazione è grave, ma non è seria.