Utilità e limiti dei test.

di Maurizio Tiriticco 23/9/2007.

 

Da tanti anni affermiamo che la valutazione degli apprendimenti e dello stesso Sistema di istruzione è un fattore importante e decisivo per lo sviluppo della nostra scuola.. Almeno tre sono le ragioni fondamentali: liquidare in tempi ragionevoli la dispersione e incrementare le competenze dei nostri giovani; sostenere l'autonomia delle istituzioni scolastiche indicando parametri certi per lo svolgimento delle loro attività; allineare il nostro Sistema di istruzione - ed anche di formazione - alle esigenze a cui è solita richiamarci da anni l'Unione europea.

I miei recenti interventi a difesa dei test e, con essi, di almeno 50 anni di ricerca sulla valutazione, hanno suscitato un certo interesse. Tullio De Mauro esprime apprezzamento per le mie note e, tra l'altro, osserva: "Mi pare di vedere affiorare nelle cose che hai scritto l'idea che i test siano essenzialmente quelli a 'vero' o 'falso' e quelli a risposta unica e chiusa, buoni per esplorare solo lo zoccolo duro (come dici tu) delle informazioni indispensabili in un dato campo più o meno ampio. (Sulla porta dell'Istituto di Filologia Romanza Aurelio Roncaglia voleva scrivere - e, attenzione, siamo negli anni cinquanta - 'Non entra qui chi non sa chi era Garibaldi'). Ma non è così. A mia conoscenza (ma non sono, purtroppo per me, un docimologo), la migliore illustrazione della raffinatezza di misurazione delle capacità di intelligenza dei problemi che i test possono consentire resta un bellissimo libro di Aldo Visalberghi, istruttivo fin dal titolo per chi fa il mestiere di insegnare: Misurazione e valutazione nel processo educativo (Edizioni di Comunità, 1955). I test sull'interpretazione di passi di Kant dovrebbero persuadere ogni scettico che abbia la pazienza di leggere (il libro non è lungo, come certo tu ricordi)".

Sono d'accordo: i test permettono ampi campi di indagine e consentono anche di... accedere alla Ragion pura! Ma, andiamo con ordine. Il principio di vero/falso non è stato inventato dai testisti, precede di gran lunga i test e risale agli stessi fondamenti della ricerca filosofica greca, ai principi di identità e di contraddizione. Ovviamente, non si vuole ridurre la complessa realtà dell'universo, o meglio dell'universo pensante (noi umani) al solo principio di vero e falso, proprio perché l'universo pensante è anche senziente, giudicante, producente. La stessa fiorentina sarà appetitosissima per una buona forchetta, ma assolutamente da rifiutare per il vegetariano: ma sempre di bistecca si tratta. Di fatto non si vive di solo pane, o meglio non si vive di solo vero/falso, ma anche di Ok/non Ok, mi piace/non mi piace, mi va/non mi va.

Non si può ridurre tutto alla ragione in senso stretto, ma la ragione è il fondamento primo su cui l'universo pensante si cimenta, produce, procede e soprattutto comunica. Ed è lo zoccolo duro delle conoscenze eguali per tutti che poi consente l'accesso al ventre molle di tutte le differenziazioni possibili. I numeri, le unità di misura, le note musicali, i colori, i morfemi, i lessemi, perfino le procedure, le regole, le ricette sono a tutti comuni, ma spetterà poi al parlante, al pianista, al cuoco, all'ingegnere, al ragioniere, al programmatore farne i mille possibili usi. E' il rapporto che corre tra sapere e fare.

E l'insegnamento, almeno quello che riguarda le conoscenze e competenze di base, quelle che oggi tutti siamo soliti chiamare literacy, numeracy e problem solving (costituiscono il primo degli otto livelli di uscita dall'istruzione e dalla formazione previsti dall'Unione europea) non può fare a meno di avere un rigoroso fondamento sull'ampio zoccolo dei tanti veri di cui oggi siamo in possesso e che anno dopo anno produciamo sempre in misura maggiore. A fronte di questi "veri" lo strumento test è fondamentale. O meglio, è il criterio test (quindi in una accezione più ampia) che deve sempre ispirare le interrogazioni (lo dico in senso lato) e le stese lezioni di un insegnante. Ma è proprio questa attenzione che non sempre si verifica. Nella mia lunga carriera ispettiva ho spesso assistito sia a lezioni che a interrogazioni e a colloqui in sede di esami di Stato; ed altrettanto spesso ho avvertito che il criterio test, o meglio che il rigore della informazione erogata (la lezione) o dell'informazione richiesta (interrogazione) o proposta (colloquio) non era affatto considerato e si vagolava all'insegna della improvvisazione e della casualità (e soprattutto proprio da parte di quegli insegnanti che vedevano nei test strumenti di nessun valore e di nessuna valenza formativa).

Io giunsi tardi al volumetto di Visalberghi perché nel '55 mi ritenevo un buon insegnante, punto e basta. Lo conobbi soltanto quando, nella scuola media riformata nel '62, cominciai a... bocciare (sic!) senza neanche rendermi conto del perché. Avevo fatto la mia battaglia politica per la scuola media unica e obbligatoria, convinto che fosse sufficiente abolire il latino e rafforzare l'italiano. Ma il problema era un altro e cominciai a capirlo solo quando Don Milani scrisse, anche per me, la sua famosa lettera. In effetti non possedevo nessuna competenza metodologica, neanche nel campo della valutazione. Né, d'altra parte, l'amministrazione PI avvertì che l'innovazione doveva essere sostenuta da una vera e propria riconversione di noi insegnanti!

Fu allora che tornai all'Università! E quel volumetto fu fondametale. Tra l'altro Visalberghi scriveva: "Un test è un complesso di quesiti tali che per ciascuno possa stabilirsi rapidamente e con certezza se è stato risolto o meno, e tutti siano talmente significativi rispetto alla materia che il numero dei quesiti risolti possa venire considerato come un indice per classificare il grado di conoscenza e comprensione da lui posseduta in quella materia, mediante un raffronto con i risultati ottenuti da altre persone sottoposte alla stessa prova".

Per me fu una scoperta! Misurare è una cosa, valutare un'altra (oggi diremmo che anche certificare è un'altra cosa). Compresi che il conoscere vita ed opere di Kant è una cosa ed altra cosa leggere/comprendere correttamente un suo passo. Ma ambedue le "cose", o meglio ambedue le operazioni mentali, obbediscono al criterio di verità. Il fatto è che non c'è un vero di poco conto ed un vero di gran peso sotto il profilo del contesto a cui questo vero si riferisce. E occorre anche considerare le operazioni cognitive che lo stimolo test mette in moto. Un conto è ricordare e riconoscere, altro conto è decodificare e interpretare, altro conto ancora è analizzare ed altro ancora esprimere un giudizio. Le operazioni mentali sono numerose. Ricordavo nello scritto precedente come Guilford ne avesse contate 120; potrei aggiungere che Gagné ne ha individuate otto e Bloom sei. Sono ricerche datate che ricerche più recenti e più mirate hanno messo in seria discussione: ormai il cervello non è più una scatola nera, e districarsi tra i miliardi di neuroni e di sinapsi sembra che sia la ginnastica preferita dai neuroscienziati di oggi.

Un altro dei miei 25 lettori, l'amico Marco Maitan mi sollecita sulla questione della oggettività dei test e mi ricorda quali sono le condizioni fondamentali perché un test sia costruito correttamente e sia misurato secondo i criteri tipici di un accertamento che, se non oggettivo in senso stretto, voglia essere almeno imparziale (quindi, come dice il docimologo, accettabile, adeguato, affidabile, attendibile, trasferibile...). In effetti, in tale campo non esiste l'oggettività in assoluto; i quesiti formulati afferiscono sempre ai contenuti e agli obiettivi di apprendimento proposti allo studente. E non è un caso che si è preferito chiamare i test prove strutturate più che prove oggettive. Va anche ricordato che la somministrazione di un test non è mai esaustiva ai fini di un accertamento complessivo e terminale della preparazione e delle conoscenze acquisite da un soggetto.

A questo proposito Maitan mi sollecita:"Non pensi che per stimolare una corretta riflessione sugli strumenti docimologici sarebbe il caso, ad esempio nell'esame di stato, che rappresenta la prova finale più importante di uno studente, di abolire nella terza prova (che peraltro credo che pochissimi interpretino secondo il giusto spirito con cui era stata pensata) la tipologia B (quesiti a scelta multipla) o quantomeno ammetterla solo in presenza di condizioni che ne garantiscano il rigore che è giusto pretendere? Ricordo che Vertecchi, in tempi non sospetti - si era nel 1999, il primo anno del nuovo esame - paventava il fatto che di fronte alle varie scelte molte commissioni si sarebbero buttate sulle prove a scelta multipla perché più rapide ad essere corrette e mostrava forti perplessità verso l'utilizzo di tale tipologia".

E' vero che, se sulla valutazione e sull'uso delle diverse tipologie di prove non si attua una formazione seria degli insegnanti (la docimologia è una scienza il cui studio richiede impegno e tempi distesi), i test verranno sempre utilizzati al ribasso perdendo gran parte della loro portata. Ricordo che alla prima tornata degli esami di Stato il Ministero propose per la tipologia test "non più di 10 quesiti a risposta multipla". Il che era assolutamente risibile a fronte di un accertamento serio, terminale, anche se si pensa che la prova era, ed è, a carattere pluridisciplinare. La ricerca ci dice che un accertamento finale accettabile in vista del rilascio di un diploma di secondo grado richiederebbe almeno una settantina di item, e per una sola disciplina! Comunque, potremmo sempre considerare che la terza prova è solo una, quindi non esaustiva, delle quattro prove che oggi sono proposte agli esami di Stato, prove che peraltro, se ben costruite e condotte sarebbero sufficienti per accertare e certificare le competenze acquisite dai candidati. Ma qui si aprirebbe un'altra dolente nota, quella della certificazione mancata, sulla quale si potrebbe discutere all'infinito!

Dalle considerazioni fin qui condotte è evidente che il test è in grado di sollecitare certe operazioni e non altre. Pertanto, per sollecitare operazioni più complesse, ci si avvarrà di stimoli di altra natura. Ad esempio, vi sono stimoli che sollecitano la valutazione che un soggetto dà di un determinato contenuto. In tal caso un soggetto potrà adottare certi criteri, un altro altri, e si entra così in un'area dei processi elaborativi che possono differire proprio in ordine alla diversità dei criteri adottati. E' la strada che conduce ai quesiti cosiddetti aperti i quali ovviamente sono un'altra cosa rispetto ai test. E se è difficile costruire un test, una prova strutturata, è più difficile costruirne una semistrutturata. E sarà anche più difficile adottare adeguati criteri di misurazione e valutazione. Ma la letteratura su queste tematica è ormai molto ampia: sono almeno 50 anni che qui in Italia ci stiamo lavorando.

Ed è delittuoso considerare il test un cascame come la Coca Cola, la quale poi, a dirla tutta, tanto cascame non è. Ciò che più mi preoccupa in questa canea che si è avviata contro i test, come se fossero quiz da strapazzo, assolutamente inutili ai fini di un accertamento, senz'altro più utili per alcuni a costruire imbrogli, è il rischio che si avvii una deriva verso un fare scuola che, sotto l'apparenza di un impossibile ritorno al passato, in cui la scuola era veramente una cosa seria - si è soliti dire così! - di fatto si voglia gettare a mare un filone di ricerca di cui una scuola veramente seria, severa e soprattutto inclusiva non può assolutamente fare a meno. Infatti, una corretta valutazione, iniziale, continua, conclusiva, sia degli apprendimenti che dello stesso Sistema di istruzione è l'autentico passepartout per una scuola diversa, migliore, più produttiva.

La semplificazione dei problemi, all'insegna di un esasperato grillismo del tutti contro tutti non aiuta a risolverli. Insegnare, oggi, è molto più difficile di ieri. Ieri avevamo, di norma, lo strumento della bocciatura. Oggi a questo strumento abbiamo rinunciato perché abbiamo raggiunto un livello di civiltà più elevato e non possiamo - e non dobbiamo - assolutamente permettere che uno solo dei nostri cittadini, piccoli e grandi, autoctoni e immigrati, si perda per via. Sul Regolamento dell'autonomia delle istituzioni scolastiche abbiamo scritto che dobbiamo adoperarci per garantire a tutti il "successo formativo". Il nostro assetto civile e lo stesso mondo del lavoro richiedono soggetti capaci di pensare, di fare e di apprendere ancora, e per tutta la vita. Con reciproco vantaggio di noi tutti!