Formazione in inglese per tutti i maestri (o quasi)[1] Giancarlo Cerini, da Educazione & Scuola del 7/10/2005
L’impresa è senz’altro ambiziosa e meritoria: garantire a tutti gli insegnanti elementari (con oneri a carico dello Stato) una adeguata padronanza della lingua inglese, oggi lingua veicolare planetaria per eccellenza. Disporre di un corpo docente colto, preparato, che guarda all’Europa, capace di far fronte alle nuove sfide culturali e linguistiche del terzo millennio è senz’altro nei desideri di tutti i governanti e nelle aspettative di tutti i cittadini (oltre che dei genitori e degli allievi). La padronanza delle lingue è senza dubbio una spinta forte alla qualificazione dei docenti, perché offre opportunità di maggiori contatti, scambi, confronti, soprattutto se sostenuta da adeguate opportunità formative (borse di studio, stage, progetti in partenariato, ecc.) non sempre alla portata di tutti. Comunque la diffusione delle lingue straniere e del relativo insegnamento è un oggetto “politicamente corretto”, di fronte al quale non è possibile chiamarsi fuori. Non è un caso che su questo punto si manifesti un consenso che va al di là dei tradizionali schieramenti politici. Semmai le differenze nascono sulle modalità attraverso cui promuovere un miglior posizionamento delle lingue straniere nella scuola (solo inglese o più lingue?), sulle risorse che si intendono dedicare a questo obiettivo, sul ruolo e le competenze richieste agli insegnanti (e quindi sulla loro formazione). Un caso concreto che consente di mettere alla prova tante dichiarazioni di principio è quello legato al futuro delle lingue straniere nella scuola elementare.
Lingua straniera alle elementari: punto e a capo? Dopo vent’anni di espansione ininterrotta, anche attraverso la assegnazione aggiuntiva di personale specializzato ad hoc per questo insegnamento, tanto da portare la diffusione dell’insegnamento verso il 100 % dei potenziali utenti (soprattutto nelle classi terze, quarte e quinte elementari), sembra aprirsi una stagione di ripensamento. La novità è contenuta in un impertinente comma, il n. 128, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, meglio conosciuta come legge finanziaria per il 2005. Tab. 1 – La previsione della legge finanziaria 2005
[Comma 128] L’insegnamento della lingua straniera nella scuola primaria è impartito dai docenti della classe in possesso dei requisiti richiesti o da altro docente facente parte dell’organico di istituto sempre in possesso dei requisiti richiesti. Possono essere attivati posti di lingua straniera da assegnare a docenti specialisti solo nei casi in cui non sia possibile coprire le ore di insegnamento con i docenti di classe o di istituto. Al fine di realizzare quanto previsto dal presente comma, la cui applicazione deve garantire il recupero all’insegnamento sul posto comune di non meno di 7.100 unità per ciascuno degli anni scolastici 2005-2006 e 2006-2007, sono attivati corsi di formazione, nell’ambito delle annuali iniziative di formazione in servizio del personale docente, la cui partecipazione è obbligatoria per tutti i docenti privi dei requisiti previsti per l’insegnamento della lingua straniera. Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca adotta ogni idonea iniziativa per assicurare il conseguimento del predetto obiettivo.
La collocazione è già di per sé significativa, anche se da lungo tempo siamo abituati alle leggi omnibus. Senza troppi giri di parole, la legge impone di riassorbire in un biennio tutte le cattedre via via istituite per assicurare l’insegnamento della lingua inglese: si tratta di ben 11.912 posti di specialista, coperti da 8.817 docenti di ruolo e da 3.095 supplenti annuali (cui andrebbero aggiunti 443 specialisti in altre lingue straniere), affidando l’insegnamento della lingua straniera ai “normali” docenti di classe. Non si tratta di una novità assoluta, perché nella scuola elementare operano già 15.313 docenti “generalisti” (in gergo specializzati) che si occupano dell’insegnamento della lingua straniera (inglese) assieme alle altre normali discipline, quindi nel proprio ambito di assegnazione (anche in questo caso vanno aggiunti ulteriori 1.562 docenti specializzati in lingue diverse dall’inglese). E’ evidente che la nomina di tanti specialisti (ognuno dei quali si occupa solo della lingua straniera in un certo numero di classi, almeno 6-7 prima dell’ultima riforma) ha consentito in questi anni di diffondere in forma massiccia l’insegnamento di almeno una lingua straniera, facendo fronte alla crescente domanda dei genitori. Ora, con il cambio di modello organizzativo, è da tutti auspicato che non si impoverisca il livello dell’insegnamento, ma che semmai si qualifichi ed estenda in vista del traguardo europeo della padronanza di due lingue comunitarie, oltre a quella materna, come prescritto anche dall’ultima riforma di ordinamento (Legge 53/2003). Per raggiungere questo traguardo, al di là dei nodi politici, culturali, professionali e sindacali di non poco conto, è indispensabile rafforzare le competenze linguistiche dei docenti elementari, a partire da quelli che si candidano (potenzialmente tutti) ad insegnare la lingua inglese nella propria classe. L’obiettivo non è così palese e mirato negli orientamenti operativi del MIUR, perché sono in corso trattative sindacali per verificare l’impatto dell’articolo della legge finanziaria sulle condizioni di lavoro dei docenti, anzi si è in presenza di un sottile conflitto di attribuzioni perché il sindacato ritiene che tale materia sia stata impropriamente regolamentata da un provvedimento legislativo, per sua natura unilaterale (la posizione è assai simile a quella sostenuta nella querelle sulla funzione tutoriale). Comunque, sono state reperite all’interno dei fondi dedicati all’attuazione della legge 53/2003 (allocati nella medesima legge finanziaria) consistenti risorse finanziarie, pari a 28 milioni di euro, poco meno di 55 miliardi di vecchie lire, per avviare un corposo intervento formativo di carattere pluriennale (in linea di massima biennale, per coprire gli a.s. 2005-06 e 2006-07). Per apprezzare la consistenza di tale cifra, basti pensare che la stessa è assai vicina all’intero ammontare dei fondi disponibili per tutte le attività di formazione per tutti i docenti dell’anno 2005 (così come dalla Direttiva 45/2005). Dunque, una volta tanto, i soldi sembrano non mancare. Si tratta ora di verificare le forze messe in campo, i modelli organizzativi, le metodologie prescelte, la struttura operativa, i tempi necessari.
Gli orientamenti del MIUR Di questi aspetti tratta la nota 1446 del 29 luglio 2005, emanata dalla Direzione Generale del Personale della scuola, e presentata in diverse occasioni ai Direttori Scolastici Regionali, cui spetta mettere in moto la complessa macchina organizzativa. Non si tratta di una semplice circolare, ma piuttosto di un insieme di documenti di lavoro che delineano il quadro scientifico e culturale di riferimento, gli strumenti operativi, le risorse finanziarie, le possibili collaborazioni da attivare, soprattutto sul versante dei Centri Linguistici Universitari e delle Agenzie specializzate. In particolare si stagliano, per il loro “respiro” culturale ed il quadro di sintesi delineato, due documenti di carattere scientifico. Il primo “paper” è stato elaborato da un apposito Comitato tecnico-scientifico operante presso l’INDIRE, titolare della formazione on line (che però, in questo caso, appare del tutto residuale) e che riassume i punti-chiave dell’intero problema, raccomandando una particolare attenzione all’accuratezza della preparazione linguistica da assicurare ai docenti. In particolare viene fissato al livello B1 del Quadro Comune Europeo di Riferimento (QCER), lo standard minimo di competenza linguistica che un docente dovrà padroneggiare per aspirare all’insegnamento della lingua inglese nella scuola primaria. A proposito del livello di competenza didattica e metodologica, si individuano come prioritari alcuni approcci metodologici (la caratterizzazione ludica, la dimensione comunicativa e semiotica, il ricorso ad una pluralità di strumenti mediatori) riassunti nell’enfasi sulla centralità dell’apprendente. Il secondo documento, più di carattere interno (siglato inizialmente dalla penna del prof. Gotti), espone invece le motivazioni e le linee del modello formativo adottato: l’insistenza sulle abilità audio-orali, il contatto frequente con la lingua, la centralità degli aspetti comunicativi, l’articolazione dell’ambiente e-learning di supporto. Si prevedono anche corsi brevi di mantenimento e di perfezionamento, modulati su 50-100 ore. Di questi documenti, così come degli aspetti di natura culturale, professionale ed operativa, daremo conto in un prossimo apposito fascicolo monografico. In definitiva, la nota del MIUR consente, con buona approssimazione, di delineare il quadro degli impegni che si prospettano nei prossimi mesi per gli insegnanti elementari e per le scuole (praticamente tutte) coinvolte nell’operazione.
Partecipazione volontaria, per ora… Va ricordato che la partecipazione alle attività di formazione, al momento, è del tutto volontaria, cioè i docenti di scuola elementare (di ruolo) possono aderire liberamente. Naturalmente è legittimo chiedersi quali saranno le possibili conseguenze della mancata partecipazione, ma questo punto è bypassato dalla circolare, con il rinvio a future ed auspicate buone relazioni sindacali. Si capisce che l’obiettivo è quello di incentivare una partecipazione motivata e convinta, non obtorto collo (…il verbo apprendere, come quello amare, non consente l’imperativo….), magari prospettando i possibili vantaggi di un tale impegno. Credito formativo nel proprio port-folio professionale, possibilità di spendere la competenza acquisita per migliorare la propria collocazione lavorativa, facilitazioni nella mobilità, ecc.: non mancheranno certamente le idee al tavolo delle trattative e chissà che non sia uno stimolo in più a risolvere l’annosa questione della carriera docente (o se vogliamo, dello sviluppo professionale). Giustamente, la nota del MIUR precisa che la contrattazione su questi aspetti è di carattere nazionale, mentre a livello regionale dovranno essere condivise soprattutto le caratteristiche del piano formativo. E’ fin troppo facile prospettare l’ipotesi che l’acquisizione della certificazione di competenze linguistiche da parte di un docente rappresenterà per l’Amministrazione la possibilità di impegnarlo direttamente nell’insegnamento della lingua inglese agli allievi della propria classe (o del proprio modulo?), andando a sostituire il collega “specializzato”. Ma i tempi e la cogenza di questa operazione sono tutte da definire. Un segnale forte, comunque, la nota ministeriale lo contiene. Quello di “scovare” tutte le competenze già presenti nella scuola e di invitarle pressantemente a dichiarare la propria disponibilità al completamento della propria preparazione. Nei mesi scorsi è stato compiuto un capillare monitoraggio in tutte le scuole elementari italiane circa lo “stato di salute” delle conoscenze di inglese tra i maestri. Ne è uscito un quadro variegato, vedi tab. 1, non del tutto affidabile –essendo basato su una sorta di autodichiarazione di competenza- ma su cui si può compiere qualche inferenza. I docenti che si trovano già al di sopra del livello soglia preventivato (quello corrispondente allo standard B1) e che non insegnano la lingua sono alcune migliaia e sembra opportuno garantire una corsia preferenziale a questo gruppo professionale, allestendo le necessarie azioni di perfezionamento linguistico e di rifinitura della preparazione metodologico-didattica.
Tab. 2 – Ricognizione delle competenze degli insegnanti elementari
Fonte: Rilevazione promossa con nota MIUR n. 586 del 23-3-2005 (sull’88% della rilevazione). E’ evidente che i diversi livelli autodichiarati dovranno essere convalidati attraverso apposite prove di certificazione prima della frequenza dei corsi. Questo aspetto è già stato collaudato nella tornata di corsi-pilota di lingua che è stata promossa nei mesi scorsi con un primo finanziamento ministeriale.
Una novità assoluta: la certificazione delle competenze A questo punto è necessario illustrare brevemente il meccanismo che tiene collegati i livelli di competenza linguistico-comunicativo, i tempi ipotizzati per il loro conseguimento, la formazione metodologico-didattica, l’idoneità all’insegnamento. E’ evidente che si tratta di aspetti diversi, non ancora del tutto regolamentati, per i quali occorre procedere con cautela. In primis è necessario chiarire che la sola padronanza della competenza linguistica, benché eccelsa, non è sufficiente per acquisire titolo (giuridico e professionale) all’insegnamento. D’altra parte, è in via di superamento il meccanismo che associa l’acquisizione di competenza alla durata in termini di ore di frequenza dei corsi frequentati (siano essi di 300, 400 o 500 ore), perché si prevede una vera e propria certificazione (quindi una prova) al termine dei corsi, che attesti l’effettivo conseguimento delle competenze corrispondenti ai diversi livelli del quadro europeo di riferimento. In linea di massima è ipotizzabile una qualche corrispondenza tra tempi di apprendimento e livello di abilità, ma si tratta di una previsione di massima che può subire accelerazioni o rallentamenti sulla base della “personalizzazione” del percorso formativo di ciascun utente (che dovrà essere reciprocamente monitorato da parte del formatore e del formando). Si pone, eventualmente, il problema della “certificazione” intermedia delle tappe di un percorso che può rivelarsi assai articolato, fino ad un massimo ipotizzato di 380 ore. Tab. 3 – Durata e livelli della formazione
L’impianto formativo è più flessibile di quanto appaia dalla tabella, poiché i tempi non sono rigidamente scanditi in tappe sequenziali (che possono comunque aiutare a costruire percorsi in progressione ed a tenerli sotto controllo), ed è possibile una scansione meno frammentaria e più distesa in base alle diverse esigenze, ad esempio con un primo modulo di 180-200 ore per raggiungere il livello A2 ed un secondo modulo di 180-200 ore per raggiungere la soglia B1. Potendo disporre di tempi distesi si potrebbe immaginare una durata quadriennale del percorso, compatibile con le esigenze di servizio dei docenti. L’impressione è che l’Amministrazione intenda accelerare le operazioni racchiudendole in un solo biennio, quindi con una frequenza assai impegnativa. Naturalmente, la possibilità di periodi intensivi, di full immersion, di stage all’estero, di altre opportunità formative di carattere più partecipato renderebbe più efficace ed articolata la fruizione dei corsi, oltre che migliorarne la qualità. A parte dovranno essere poi conteggiati i tempi per gli approfondimenti metodologico-didattici necessari per completare il profilo di idoneità all’insegnamento del docente formato.
Linee metodologiche e scelta dei formatori Appare meritevole la scelta di improntare le attività formative ad una dimensione di forte coinvolgimento dei partecipanti (e non può che essere così, trattandosi di adulti “professionisti”), attraverso metodologie partecipate e riflessive. Si raccomanda, dunque, di valorizzare il “sapere esperto” dei docenti, il legame con il contesto di lavoro (che può fungere da laboratorio di ricerca-azione), l’integrazione delle diverse componenti della professione (conoscenze, atteggiamenti, abilità, competenze). I metodi dovranno far ampio ricorso all’apprendimento cooperativo, alla didattica laboratoriale, all’interattività delle situazioni, con la possibilità di costruire percorsi personali e flessibili. La formazione linguistica via via in incremento dovrà intrecciarsi con rinnovate consapevolezze didattiche, attraverso l’integrazione dei “pacchetti” linguistici in presenza (fino ad un massimo di 380 ore, secondo la scansione per livelli già presentata) con le attività on line, predisposte sulla piattaforma INDIRE. Questo secondo profilo avrà al centro gli aspetti psicolinguistici (cosa significa apprendere una seconda lingua in età precoce?), quelli metodologico-didattici (come si progettano percorsi per sviluppare efficaci abilità di comunicazione?), interculturale (quali i valori sottesi a questo insegnamento?) e metacognitivo/autovalutativo (quali strategie di gestione dell’apprendimento?). Per raggiungere questi obiettivi i corsi dovranno avvalersi di formatori consapevoli di non potersi limitare alla mera erogazione “trasmissiva” di contenuti, ma di doversi impegnare soprattutto in compiti di tutorato, cioè di accompagnamento di colleghi in un percorso di sviluppo di nuove competenze. Le indicazioni sulla scelta dei formatori sono giustamente rigorose, perché è risaputo che l’efficacia della formazione in servizio si gioca in buona parte sulla qualità (competenza, disponibilità, passione) dei conduttori delle iniziative formative. Nel campo dell’insegnamento delle lingue straniere esiste comunque una collaudata pratica di formazione, a cura delle agenzie linguistiche internazionali e delle scuole di lingua, ma anche del mondo della scuola (attraverso i progetti sperimentali che si sono succeduti negli anni, anche con il contributo delle associazioni dei docenti). In questo campo, piuttosto che in tanti altri settori disciplinari, è possibile dunque avvalersi di un quadro di docenti-formatori già “collaudati” che offrono tutte le garanzie del caso. La nota ministeriale, ad ogni buon conto, rammenta che i formatori dovrebbero padroneggiare un livello di competenza pari alla soglia C1 (con eventuali ulteriori specializzazioni), avere esperienza concreta di insegnamento della lingua, aver già svolto in precedenza funzioni di formatore. Peccato che non sempre, a livello territoriale, sia stato salvaguardato questo patrimonio di risorse umane, attraverso la costituzione di centri permanenti di formazione (i c.d. Centri Risorse Linguistici) e la valorizzazione di “figure di sistema” per l’aggiornamento. Ma questo, si sa, è il tallone d’Achille del nostro sistema di formazione dei docenti.
Università, istituti linguistici e certificazione E’ coerente con l’impostazione del legislatore (in particolare con l’art. 5 della Legge 53/2003) la chiamata in causa del sistema universitario nella conduzione scientifica dei corsi ed anche nella loro pratica realizzazione. Naturalmente questo coinvolgimento dovrà avvenire in un regime di piena reciprocità e senza sudditanze: l’Università (in particolare i numerosi Centri Linguistici di Facoltà o di Ateneo) dovrà mettere a disposizione le reali competenze di cui dispone (in particolare ci sembra prezioso l’apporto degli “assistenti di lingua” e dei professori “invitati”), ma anche la scuola dovrà fornire i suoi “saperi” che non sono solo di carattere pratico ed operativo. Il partenariato, in questo caso, è d’obbligo. Anche perché appena dietro l’angolo di questo sistema è presente una ricca schiera di Enti e di agenzie formative, quasi tutte certificate dallo stesso MIUR come soggetti accreditati per la formazione, che rivendicano uno specifico e collaudato know-how e sono desiderose di mettersi alla prova in una impresa così vasta (e dove, aggiungiamo sommessamente, sono in ballo anche consistenti risorse finanziarie). E’ evidente che si apre anche una forma di competizione tra i diversi soggetti di questo mercato della formazione (e la cosa non dispiace certamente all’Authority per la concorrenza, che nei mesi scorsi ha avuto modo di “bacchettare” lo stesso MIUR per presunti orientamenti volti a favorire qualche Ente piuttosto che altri). L’importante è comunque che gli insegnanti non siano considerati semplici spettatori (o clienti) di questo nuovo “business” formativo, ma protagonisti in prima persona. In gioco non c’è solo qualche fetta di mercato da incrementare, ma una impresa culturale di largo respiro che vorrebbe rendere più europei i nostri docenti e quindi la nostra scuola. Il primo banco di prova di questa triangolazione tra Università, Enti linguistici e scuola sarà rappresentato dalle modalità di certificazione delle competenze dei corsisti. Infatti è previsto che al termine dei corsi (ma anche all’inizio degli stessi) siano documentati i livelli di conoscenza, attraverso procedure valutative gestite direttamente da Enti certificatori riconosciuti, meglio ancora se d’intesa con le Università. In tal senso sono in corso trattative a livello nazionale.
Modello organizzativo Cosa avverrà concretamente nei prossimi mesi? Entro il 15 settembre 2005 ogni Ufficio Scolastico Regionale dovrà elaborare un apposito piano operativo, con la previsione delle iniziative formative da realizzare (numero dei corsi attivabili), i tempi di sviluppo (di norma biennali, assicurando comunque il completamento delle attività iniziate), la collocazione dei corsi (che non dovranno accogliere più di 20 docenti), le modalità di ammissione dei partecipanti (tenendo conto delle priorità stabilite a livello nazionale), i criteri di scelta dei direttori dei corsi e dei formatori. In particolare, pare prioritario intervenire in quelle aree territoriali ove maggiori sono le carenze di personale “formato” in lingua e quindi maggiore è il ricorso a personale “precario” con tutte le conseguenze immaginabili.
Tab. 4 – Criteri di priorità nella partecipazione ai corsi
- Docenti che, in sede di candidatura ai corsi, hanno dichiarato la competenza minima di livello A2; - docenti che insegnano lingue straniere diverse dall’inglese; - docenti neoassunti; - docenti in servizio presso istituzioni scolastiche nelle quali si sia reso necessario il ricorso a personale con contratto a tempo determinato per l’avvio del processo di riforma.
Fonte: Nota MIUR n. 1446 del 29-7-2005. E’ necessario definire il quadro operativo delle attività formative unitamente alle Organizzazioni Sindacali attraverso uno specifico contratto regionale, in quanto la materia rientra nella sfera di natura contrattuale (ed abbiamo già notato come questo sia un punto assai delicato, stante i “vincoli” della legge finanziaria). Naturalmente sarà necessario raggiungere un “gentleman’s agreement” (un onorevole compromesso) tra le opposte esigenze di “riconversione obbligata dei docenti” e di “promozione libera delle disponibilità”, puntando sull’idea della formazione in servizio come opportunità e “diritto”. In fondo, perché dire di no ad un investimento dell’Amministrazione che mette a disposizione di ogni docente un budget di circa 1.500 euro per incrementare la propria preparazione culturale e didattica? E’ quindi opportuno coinvolgere i docenti ed i dirigenti scolastici in questa fase di messa a punto dei programmi formativi, anche per sensibilizzare tutti gli attori circa il significato, la natura, le conseguenze delle attività in via di allestimento. A livello regionale è prevista la costituzione di una cabina di regia scientifica (ove, a fianco delle Università e dell’Amministrazione, è bene che non manchino i rappresentanti dei docenti), che poi potrà articolarsi a livello provinciale in agili gruppi operativi per la progettazione e gestione delle attività sul territorio (immaginando accordi di rete, che facciano perno su scuole-polo, meglio ancora se sedi dei Centri Risorse di Lingua). Poiché i corsi da attivare sono parecchie decine in ogni realtà, ci sarà spazio per tutti i soggetti accreditati in una sana competizione per la qualità. Il budget, non da poco (stimabile in circa 7.000 euro per ogni modulo di 100 ore) potrebbe aiutare nell’impresa. [1] Il presente intervento è apparso, con lievi variazioni, nel numero 1 della rivista quindicianale “Notizie della Scuola”, 1-15 settembre 2005, Tecodid, Napoli. La stessa rivista dedica il numero 4, del 15 ottobre 2005, interamente al problema della formazione degli insegnanti sulla lingua straniera con saggi di Giancarlo Cerini, Gisella Langè, Linda Rossi Holden, Silvia Minardi, Marco Ruscelli, Laura Gianferrari oltre a presentare tutta le documentazione ufficiale relativa al problema.
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