La “difficile” riforma:

la scuola dei quattro tradimenti

di Giancarlo Cerini *

 

 

Il dibattito attuale sulla riforma della scuola non è del tutto convincente: sembrano prevalere i toni “forti” dello scontro frontale, a scapito di un esame più sereno delle riforme “necessarie” e “possibili”. Gli slogan (riforma vs controriforma) prendono il posto di analisi che dovrebbero essere invece più meditate.

Ma quali sono effettivamente i valori in gioco attorno alla riforma della scuola, un “lavoro” che l’attuale Ministro dell’Istruzione ha dichiarato di “non voler lasciare a metà” ?

L’intervento cerca di affrontare queste domande mettendo in evidenza le tradizionali difficoltà del nostro sistema scolastico ad affrontare le innovazioni, ma anche le ambiguità delle domande che la società rivolge alla “sua” scuola.

 

La domanda sociale di istruzione: minimalismo di ceto

Al di là della volontà degli schieramenti politici, cos’è che può mettere in moto una riforma della scuola che sia condivisa e solida e quindi destinata a non essere travolta dalla fisiologica alternanza dei Governi? Detto con altre parole, quali riforme della scuola potrebbero aspirare ad un consenso sociale ampio e sincero, comunque maggiore di quello che si è registrato in questi mesi a proposito della riforma Moratti e negli scorsi anni a proposito della riforma Berlinguer?

Chiediamoci, allora, se c’è una domanda sociale in grado di stimolare l’innovazione del sistema formativo. Cioè, che cosa pensa e chiede l’opinione pubblica a proposito della scuola per i propri figli o per il proprio paese ? Molte indagini demoscopiche[1] convergono nel ritenere che l’anello debole del sistema scolastico italiano sia il fragile (o inesistente) legame tra sistema scolastico e mondo del lavoro (in termini di sbocchi occupazionali, di alternanza tra diverse esperienze formative, di incontro con una moderna cultura del lavoro). Il miraggio che viene evocato per una buona formazione è quello della “occupabilità”, un concetto troppo spesso semplificato e tradotto in “aspettativa per un posto di lavoro adeguato e coerente con gli studi sostenuti”, poi magari vissuto come “speranza di un posto di lavoro qualsiasi”.

Anche se in molti documenti europei fa capolino un’idea “funzionalista” del ruolo della formazione (collocare le persone giuste al posto giusto), un’aggiornata teoria dell’occupabilità dovrebbe mettere in evidenza soprattutto il carattere di “investimento di lungo periodo” dell’educazione, la sua capacità di promuovere nelle persone (nel maggior numero di persone) conoscenze e competenze disinteressate, persistenti, ad ampio raggio. Attitudini come la brillantezza intellettuale, la curiosità, la riflessività, il gusto dell’impegno, lo spirito di iniziativa, bene si attagliano alla incombente “società conoscitiva” e quindi ai futuri “lavoratori della conoscenza”. Chissà se gli indicatori quantitativi (…mesi necessari per trovare un posto di lavoro al termine degli studi…), sbandierati con molta facilità da autorevoli istituti di ricerca, sono coerenti con questa idea “ariosa” di occupabilità o se non ci sia il rischio di una semplificazione di corto respiro, di un investimento troppo appiattito sul contingente.

In questa ottica si può leggere la propensione favorevole dell’opinione pubblica verso proposte di sistemi duali (doppio canale) senza sottilizzare troppo sull’età alla quale ragazze e ragazzi dovrebbero separare i loro destini scolastici (e sociali), anche se questo avvenisse poco dopo i 14 anni.

Sembra così emergere una domanda sociale minimalista nei confronti della scuola: un servizio su misura dei bisogni della famiglia nella scuola di base (con tempi lunghi-pieni al Nord e corti-antimeridiani al Sud) ed una domanda di spendibilità immediata della formazione, appena i ragazzi oltrepassano la “boa” dei 14 anni. Sono domande che rivelano un atteggiamento “conservativo”, piuttosto che una richiesta di innovazione.

 

I nuovi scenari istituzionali: il rischio di una sussidiarietà rinunciataria

Una spinta al cambiamento deriva certamente dai nuovi scenari dell’autonomia e del federalismo. La fine degli gli anni novanta ha segnato una svolta nei modelli di gestione istituzionale della scuola, portando a compimento alcune intuizioni degli anni ‘70, come erano stati i decreti delegati sulla partecipazione dei genitori e delle comunità ed il rilancio del ruolo degli enti locali. Questa evoluzione è ben rappresentata dalla difficile convivenza tra scuola dello Stato e scuola della comunità, con le diverse interpretazioni che possono essere date al concetto di “autonomia”: tra autonomia di sistema (da portare fino alle estreme conseguenze di una completa autosufficienza delle singole istituzioni scolastiche, fino al reclutamento dei docenti ed alla ricerca di risorse finanziarie) e autonomia di comportamenti (cioè limitata agli aspetti di carattere organizzativo e didattico nell’alveo di regole certe del sistema pubblico).

Dopo le modifiche al Titolo V della Costituzione (cfr. Legge Cost. n. 3 del 18-10-2001) il nuovo equilibrio nel governo della scuola si è imperniato sul riconoscimento dell’autonomia funzionale delle scuole (circa 11.000 unità scolastiche), sul ruolo di garanzia e di regia “leggera” dello Stato (attraverso l’elaborazione di norme generali, principi fondamentali, livelli essenziali delle prestazioni), sulla gestione “intermedia” di Regioni, Province, Comuni, cui sono riconosciute funzioni di programmazione e assegnazione delle risorse (per la configurazione di una offerta formativa rispondente ai bisogni dei diversi territori).

Un equilibrio ancora difficile da collaudare, come dimostra la vicenda emblematica dei ricorsi incrociati tra la Regione Emilia-Romagna ed il Governo nazionale (rispettivamente della Regione contro il decreto legislativo 59/2004 di attuazione della riforma “Moratti” e del Governo contro la legge regionale 12/2003 “Bastico” di attuazione delle competenze regionali in materia di istruzione).

Il nuovo riparto delle competenze si muove all’insegna del principio di sussidiarietà, di cui però esistono molte versioni, ivi comprese quelle iper-liberiste e rinunciatarie di un qualsiasi ruolo dello Stato nell’assicurare pari opportunità a tutti i cittadini.

Ad esempio, come si fissano i “livelli essenziali delle prestazioni” in materia di diritti civili e sociali, tra i quali vanno annoverati certamente anche quelli all’istruzione ? Come si garantisce il loro rispetto, la loro effettiva realizzazione in tutti i contesti, anche quelli più difficili ? Come si declinano gli interventi compensativi, di riequilibrio, di adeguamento ? E, soprattutto, come i livelli essenziali si rapportano con gli standard di funzionamento delle scuole (da fissare a livello nazionale) e come si intrecciano con gli standard di apprendimento, di cui nessuno vuole parlare, ma che poi di fatto vengono suggeriti dal Sistema nazionale di Valutazione attraverso l’uso sempre più massiccio di test di apprendimento?

E’ legittima la pretesa degli estensori delle (provvisorie) Indicazioni Nazionali per la scuola di base di far coincidere gli oltre 800 obiettivi didattici, articolati disciplina per disciplina, con i “livelli essenziali delle prestazioni”, che tutte le scuole sono tenuti a rispettare ? Oppure, non sarebbe più opportuno scegliere una gamma significativa di competenze essenziali (trasversali alle diverse discipline) su cui commisurare i traguardi formativi perseguiti dalle scuole?

Standard, obiettivi di apprendimento, obiettivi formativi, competenze: senza farsi impressionare troppo dalle dispute lessicali sarà necessario precisare cosa deve essere prescrittivo per le scuole e quindi cosa può intendersi per “nucleo essenziale” dei piani di studio di cui parla la legge 53/2003 e cosa invece può essere lasciato alla discrezionalità delle scuole, senza il timore di incappare nei rigorismi del sistema nazionale di valutazione.

Le polemiche di questi mesi hanno riguardato proprio i limiti e le prerogative dell’autonomia della scuola, che sono sembrate annullate dal risorgente centralismo dello Stato. Dopo tanto parlare di autonomia è però rimasto in ombra il ruolo di garanzia dello Stato nell’assicurare un servizio pubblico di qualità in ogni ambito territoriale del nostro Paese.

 

L’asse culturale: istruire quanto basta, educare più che si può?

Ma è sul significato del nuovo modello educativo che il confronto si è acceso, a partire dai documenti “ufficiosi” della Riforma. Il disagio è stato acuito anche dalla sensazione di molti operatori scolastici di essere stati esclusi dai processi di elaborazione dei nuovi indirizzi programmatici, interrompendo una regola implicita negli ultimi 30 anni, che aveva sempre visto l’elaborazione pedagogica ufficiale sulla scuola essere il frutto di ampie commissioni di studio.

Dopo la stagione bruneriana degli anni ‘70 e ‘80, che aveva dato vita ai programmi della scuola media (1979), elementare (1985) e materna (1991), i nuovi documenti programmatici sembrano preannunciare una svolta, almeno terminologica. Si parla sempre più spesso di persona, di progetto di vita, di comportamenti, di valori, di esistenza, di identità, con implicazioni anche sul nuovo modello pedagogico-didattico: il tutor, la personalizzazione, i piani di studio personalizzati, il portfolio. Questo nuovo lessico sembra prendere il posto di parole e termini che fino a pochi anni fa erano patrimonio condiviso: cultura, saperi, competenze, formazione dell’uomo e del cittadino, pari opportunità, successo formativo, con il corollario di strumentazioni operative quali: il curricolo, la progettazione, l’individualizzazione, la valutazione formativa, la collegialità….

I programmi degli anni ’80 non erano solo il frutto (oggi certamente superato) della stagione dei programmi e della programmazione, ma anche il tentativo di tradurre nella scuola le suggestioni “bruneriane” di un sapere alla portata di tutti, di un principio educativo centrato sulla trasmissione culturale, sul formare persone attraverso l’incontro con i sistemi simbolico-culturali.

Oggi siamo in presenza di un semplice cambio di lemmario pedagogico o sono in gioco nuovi valori culturali e pedagogici, tali da configurare una svolta nel sistema educativo? Ma se così fosse, chi è legittimato a proporre una nuova e diversa piattaforma pedagogica ed educativa per le scuole del nostro paese? E’ sufficiente un’operazione culturale affidata ad alcuni tecnici di fiducia del ministro pro-tempore, senza aprire una discussione più ampia all’interno della comunità scientifica e del mondo della scuola? E’ legittimo “sequestrare” il dibattito culturale sul futuro della scuola all’interno del “palazzo”, tra pochi addetti ai lavori (forse uno solo), interrompendo la tradizione di imprese culturali largamente condivise, pluralistiche, di lungo periodo, come erano quelle che abbiamo appena citate degli anni ottanta, che hanno guidato, nel bene e nel male, la scuola italiana per almeno 25 anni?

Ma, superata la pregiudiziale metodologica (impresa non da poco, visto che i materiali culturali prodotti attraverso percorsi assai unilaterali fanno mostra di sé sulle pagine della “Gazzetta Ufficiale” e sono quindi un vincolo prescrittivi per tutti gli insegnanti), sarà pur necessario ritornare nel merito delle questioni e interrogarsi sui bisogni di una società che è certamente cambiata rispetto agli anni ottanta, che esprime nuove domande e nuove richieste alla scuola, che forse ha smarrito alcune certezze anche in campo educativo e che ora le pretende dalla scuola. La centratura sulla dimensione educativa, condivisibile, si carica di una spinta “etico-esistenziale” che rischia di far prevalere un dato “ideologico” su una più “laica” diagnosi dei compiti formativi della scuola: ma, come ci ricorda l’Ocse, non si possono dimenticare né i compiti educativi (di socializzazione, di costruzione di regole e valori, di cittadinanza, ecc.), né quelli più prettamente istruzionali (da rileggere come formazione “critica”, curiosità, intraprendenza, metacognizione, ecc.).

E’ un equilibrio ragionevole certamente da perseguire, di fronte al rischio di una scuola generosa sul piano delle nobili affermazioni di principio, ma reticente sul piano delle offerte concrete di cultura e di apprendimenti significativi.

 

Il modello curricolare: una montagna da scalare…

Sembra che con la riforma le azioni del “curricolo” siano in ribasso, almeno stando alle dichiarazioni contenute nei documenti ufficiali della riforma. Le Indicazioni nazionali si accreditano come esplicito superamento della logica dei programmi prescrittivi ed anche di quella del curricolo. L’idea è quella di mettere al centro i singoli soggetti, attraverso il principio di personalizzazione e la sua traduzione nei Piani di studio personalizzati (ci sarebbe, però, da chiedersi se i Piani di studio personalizzati siano l’unica legittima traduzione sul piano operativo del concetto di personalizzazione).

Il curricolo, in questa accezione, sarebbe ancora un retaggio di impostazioni comportamentiste e razionalizzatici dei programmi di studio, con l’accento posto sul raggiungimento delle “performances” attese. Ma proprio le nuove Indicazioni nazionali (2004) si presentano come tavole con lunghi elenchi di obiettivi (specifici) di apprendimento, prescrittivi per tutte le istituzioni scolastiche e quindi finiscono con il veicolare proprio quell’idea tassonomica di competenze che si vorrebbe rimuovere.

Anche la scansione dei cicli in periodi didattici molto brevi (di uno o due anni) accentua una lettura prestazionistica degli obiettivi, mentre resta in ombra l’identità (o meglio, le diverse identità) dei bambini che “abitano” le nostre scuole. Un modello psicologico di vago sapore stadiale (che riconferma la tradizionale distinzione tra livelli scolastici) contribuisce a rendere più incerto il profilo psicopedagogico, mentre manca ogni riferimento alle diversità di genere, di cultura, di religione, di etnia. Insomma, si tratteggia un fanciullo “angelicato”, lontano dai rischi e dai drammi della società contemporanea.

Non è chiaro come le esperienze individuali dei bambini, i loro vissuti, possano incontrarsi con i saperi degli adulti, con gli alfabeti (non solo quelli del leggere e dello scrivere) che fanno crescere.  Emerge una idea della “disciplina” di studio, quasi come una montagna invalicabile, da scalare faticosamente, con la responsabilità del successo posta tutta sulle spalle dei piccoli scalatori. Non c’ più un modello costruttivista e cooperativo di apprendimento, cioè la convinzione che scalare la montagna è possibile perché (nella nostra classe) “insieme ce la possiamo fare”, perché i grandi aiutano i piccoli a costruire sentieri per guardare un po’ più dall’alto (e sempre meglio) la realtà che li circonda.

Manca nei documenti programmatici un appropriato richiamo al contesto, all’idea di scuola come ambiente di apprendimento, che era elemento portante dei programmi della scuola elementare del 1985. Oggi il concetto di alfabetizzazione strumentale sembra prendere il posto dell’alfabetizzazione culturale (e rischia di essere surrogato da un approccio grammaticale all’educazione linguistica); così come l’idea complessa di ambiente di apprendimento viene surrogata dalla figura del tutor “forte”, quasi un ritorno al maestro unico. Altro sarebbe invece, una visione delle funzioni tutoriali (al plurale, condivise, come suggello della collegialità docente) in grado di qualificare la trama delle relazioni sociali, affettive, cognitive, tipiche della vita di un gruppo di coetanei. Così pure, il tempo della scuola viene nettamente distinto tra tempo obbligatorio (in classe) e tempo facoltativo (nei laboratori), tempo della lezione (frontale) e tempo della ricerca (nei gruppi elettivi), rendendo assai difficile la costruzione di una giornata educativa equilibrata e dai tempi (affettivi e cognitivi) distesi. Tutto diventa più difficile, ma non impossibile.

Ecco perché è utile tornare a parlare di curricolo, magari accentuandone la fondazione antropologica, con i “saperi” che valgono per il significato che essi assumono nella formazione delle persone, per il modo di pensare, di capire, di vivere le situazioni culturali.

Curricolo può significare tante cose, ivi compreso “elenco organizzato di obiettivi di apprendimento”; ci piace, invece, pensare ad un curricolo come contesto di apprendimento, come esperienza della classe, vista come luogo privilegiato di relazioni empatiche, dove insieme si costruiscono i significati dell’esperienza culturale. L’enfasi sui piani di studio personalizzati rischia di dissolvere il baricentro comunitario ed educativo della scuola, come luogo degli apprendimenti sociali e dell’educazione ad una cittadinanza consapevole, ed apre la strada alla competizione tra gli individui, forse più reattivi e preparati, ma certamente più soli e disperati.


 

* Ispettore tecnico presso l’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna

 

[1] Indagini relative agli orientamenti dell’opinione pubblica sono state svolte dall’agenzia Eurisko-Demos per conto del quotidiano “Repubblica”(marzo 2004), dall’Istat per conto del Ministero dell’Istruzione in previsione degli Stati Generali della scuola (dicembre 2001), dall’Istituto Cattaneo in collaborazione con la Fondazione TREELLE (aprile 2004), oltre alle periodiche indagini di opinione dell’Istat che accompagnano le rilevazioni statistiche dell’istituto.