Funzioni tutoriali:

dal “disagio” alla ricerca (*).

di Giancarlo Cerini, da Educazione & Scuola del 7/12/2004

 

L’incertezza delle scuole e dei Collegi dei docenti

La scuola, in particolare la scuola elementare (oggi denominata primaria, per altro come nel DPR 12-2-1985, recante i precedenti Programmi didattici), vive con profondo disagio il problema della questione “tutoriale”, impropriamente semplificata con il problema dell’introduzione della figura del docente “tutor”. Ne sono testimonianza non solo le prese di posizione espresse più volte dalle rappresentanze dei docenti (sindacati ed associazioni professionali), le delibere (a volte improprie) di tanti collegi dei docenti, le pronunce ufficiali degli organi consultivi della scuola (da ultimo la deliberazione del CNPI-Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione del 15-7-2004 in merito alle Indicazioni Nazionali), ma anche il difficile “decollo” nella realtà delle scuole della funzione “tutoriale” –di fatto- ancora sospesa nell’attesa di un necessario accordo contrattuale.

Alcune proiezioni sui concreti comportamenti delle scuole (primarie, in questo caso), sia di fonte sindacale, sia di fonte dell’amministrazione, rivelano che solo il 20% delle scuole –in alcune grandi regioni del Nord- avrebbe dato corso alla assegnazione della funzione tutoriale secondo la configurazione prevista dal dispositivo dell’art. 7 del D.lvo 59 del 19-2-2004 (unicità della figura tutoriale). Un 30% di scuole non avrebbe ancora affrontato l’argomento in collegio dei docenti, mentre circa la metà ne ha fatto oggetto di prime valutazioni o di applicazioni in senso molto lato (ad es. con la formula del “tutorato diffuso”, cioè di compiti tutoriali attribuiti ad una pluralità di soggetti del team docente, quando non all’intero team).

Il condizionale è d’obbligo, perché manca ancora un monitoraggio ufficiale circa le prime fasi di applicazione del D.lvo 59/2004 che, come noto, decorre dal 1° settembre 2004. I monitoraggi compiuti negli anni precedenti sulle iniziative sperimentali attestano che proprio sulla questione tutoriale si erano manifestate le maggiori divergenze di opinione tra gli stessi insegnanti sperimentatori.

Tab. 1 – La sperimentazione del tutor: un bilancio controverso

L’introduzione della figura del docente coordinatore-tutor ha canalizzato attenzioni, suscitato speranze, generato preoccupazioni. Da una parte, si è guardato con fiducia e con aspettative di alto profilo alle sue funzioni di “supporto-guida allo studente” e di coordinamento delle azioni delle diversità professionali; dall’altra, sono state sperimentate, l’onerosità e la complessità di molti suoi compiti ed impegni specifici […].

In tutte le realtà scolastiche mentre le famiglie hanno gradito la figura di riferimento del tutor e la visibilità della sua funzione, in alcune regioni si teme invece il rischio che possano crearsi team non integrati e funzionali.

Diversificati sono comunque gli atteggiamenti dei docenti nei confronti di questa nuova figura sul piano dell’organizzazione dell’attività didattica. Vi sono di quelli che…temono la gerarchizzazione all’interno dell’equipe pedagogica e conseguentemente la subalternità dei docenti dei “laboratori interclasse” nei confronti del “tutor”. In altre realtà regionali …la figura del tutor viene accettata con qualche riserva nei confronti della complessità dei compiti affidategli rispetto all’intero impianto organizzativo. [In alcune regioni]… si registrano situazioni di pieno equilibrio tra i docenti pur con l’assegnazione di un maggior carico di compiti di coordinamento e di ore assegnate al tutor.

Fonte: Rapporto nazionale MIUR - Sperimentazione DM 100/2002

 

Una situazione di attesa

È ragionevole ipotizzare che la cautela dimostrata dalle scuole sia soprattutto il frutto di una aspettativa legata agli esiti della negoziazione sindacale. Ricordiamo infatti che la stessa circolare n. 29 del 5-3-2004, contenente alcune indicazioni operative circa l’attuazione del D.lvo 59/2004, sembrava collegare la concreta attuazione del nuovo dispositivo sulla funzione tutoriale al verificarsi di almeno tre condizioni concomitanti:

a)     l’effettuazione di specifiche attività di formazione in servizio, finalizzata alla preparazione ai nuovi compiti (da affidarsi preferibilmente , ai sensi dell’art. 5 della legge, a strutture universitarie);

b)     la definizione di una “sequenza contrattuale”, cioè di un contratto integrativo tra Amministrazione scolastica (e per essa, da parte dell’agenzia a ciò deputata, cioè l’ARAN) e le organizzazioni sindacali firmatarie del Contratto Nazionale di Lavoro (2002-2005), con la precisazione di compiti, condizioni, modalità, riconoscimenti connessi all’espletamento delle nuove “funzioni”previste dal D.lvo 59/2004;

c)     la messa a disposizione delle scuole di “specifici approfondimenti” tecnici sulle caratteristiche della funzione “tutoriale”, da realizzarsi nelle sedi appropriate (non meglio individuate).

Ora, è difficile argomentare in punto di diritto se queste condizioni siano o meno “ostative” dell’adozione delle norme di legge (art. 7, commi 5, 6 e 7 del Dlvo 59/2004) ad opera delle istituzioni scolastiche, attraverso un procedimento che prevede la definizione di criteri da parte dei Collegi dei docenti e l’assegnazione dei nuovi compiti da parte del Dirigente scolastico. Le opinioni al riguardo sono radicalmente diverse, tra Amministrazione e Sindacati. È del tutto evidente che il protrarsi di questa situazione “conflittuale” sta determinando notevoli incertezze nella scuola e tra gli operatori scolastici, con l’emergere di un vero e proprio caleidoscopio di modelli organizzativi e di soluzioni adottate (dall’unicità della funzione tutoriale al “tutti siamo tutor”).

Il dibattito sembra polarizzarsi attorno a dati “umorali” e pregiudiziali (tutor sì, tutor no), piuttosto che su una serena valutazione delle questioni poste dal legislatore con l’attribuzione di nuove funzioni educative ai docenti, o quanto meno, il rafforzamento di quelle già contemplate dalla “funzione docente”.

 

Tab. 2 – Tutor, funzioni tutoriali e nuovi compiti: cosa dice la legge

Art. 7. comma 5: L’organizzazione delle attività educative e didattiche rientra nell’autonomia e nella responsabilità delle istituzioni scolastiche, fermo restando che il perseguimento delle finalità di cui all’articolo 5, assicurato dalla personalizzazione dei piani di studio, è affidato ai docenti responsabili delle attività educative e didattiche, previste dai medesimi piani di studio. A tal fine concorre prioritariamente, fatta salva la contitolarità didattica dei docenti, per l’intera durata del corso, il docente in possesso di specifica formazione che, in costante rapporto con le famiglie e con il territorio, svolge funzioni di orientamento in ordine alla scelta delle attività di cui al comma 2, di tutorato degli allievi, di coordinamento delle attività educative e didattiche, di cura delle relazioni con le famiglie e di cura della documentazione del percorso formativo compiuto dall’allievo, con l’apporto degli altri docenti.

Fonte: Decreto Legislativo n. 59 del 19-2-2004 (I corsivi sono del curatore).

 

Questo disagio, composto di un mix di attese, di timori, di preoccupazioni, va ascoltato e non può essere esorcizzato chiamando in causa un deliberato intento di boicottaggio o di fraintendimento della legge, o la tradizionale “resistenza” dei docenti di fronte alle proposte di cambiamento e di riforma (che si manifestò in forme acute anche in occasione della precedente proposta di riforma dei cicli o dell’ipotesi di “concorso” per la differenziazione delle professionalità). Gli interrogativi sono talmente estesi e “trasversali” che occorre uno sforzo maggiore di comprensione, vorremmo dire, di “empatia” nei confronti delle difficoltà e dei disagi dei docenti.

 

Una questione “simbolica”

È probabile che sulla intera vicenda giochi innanzitutto un fattore “simbolico”, cioè il percepire –da parte soprattutto dei docenti elementari, anzi, delle maestre elementari - l’introduzione di una unica “figura” tutoriale all’interno dell’equipe docente come una palese smentita di quanto è avvenuto nella scuola elementare in questi ultimi vent’anni, con l’introduzione dei programmi didattici del 1985 e l’attuazione di una “organizzazione modulare” basata sul concetto di team e di pluralità dei docenti, con pari responsabilità nella conduzione delle classi affidate. Questo modello viene ancora oggi considerato valido dalla grande maggioranza dei docenti e coerente con le proprie aspettative professionali, dunque si vorrebbe qualche argomentazione più approfondita circa le ragioni dei cambiamenti da apportare all’attuale organizzazione.

Le indagini sui livelli di apprendimento (da quelle internazionali IEA sulla lettura in quarta elementare a quelle più interne dell’INVALSI sulle conoscenze linguistiche, matematiche, scientifiche in seconda e quarta elementare) sembrano attestare la “bontà” del prodotto fornito dalla scuola elementare italiana, mentre anche le indagini di opinione confermano la persistente alta “affidabilità” della scuola primaria nei confronti dei genitori.

Un primo interrogativo, dunque, riguarda la possibilità di corrispondere alle nuove esigenze poste dal legislatore (il legislatore delegato, in verità, piuttosto che il legislatore delegante, perchè nella legge delega 53/2003 non si trova traccia della figura o funzione tutoriale), senza tradire quanto di positivo viene vissuto nella propria storia professionale, cioè i valori ampiamente condivisi di piena contitolarità, di pari responsabilità, di effettiva collegialità nel modo di lavorare.

Questo dato è fortemente radicato tra la maggioranza dei docenti, che non li vuole facilmente abbandonare, o meglio, richiede di acquisire più profondi convincimenti, motivazioni, argomentazioni, che non siano solo un dispositivo di legge e allegati pedagogici ancora “transitori, tali da evidenziare gli effettivi vantaggi di un nuovo e diverso modello professionale (quello appunto legato all’assegnazione ad un solo docente di funzioni educative complesse, oggi sentite come proprie di tutti i docenti).

 

Per un approccio professionale

In questo contesto, non è facile per un collegio dei docenti affrontare in termini professionali e “laici” (senza pregiudiziali) la questione “tutoriale”. L’obiettivo da perseguire dovrebbe essere quello, al di là della piega che assumeranno le vicende politiche e contrattuali, di assicurare lo svolgimento di funzioni tutoriali, nel pieno rispetto della collegialità e della pari dignità e responsabilità dei docenti. Ciò implica una ricerca di carattere culturale e scientifica sul “senso” delle nuove funzioni, la verifica delle concrete condizioni operative, la riflessione sui cosiddetti “posizionamenti” delle diverse funzioni di tutorato, di coordinamento e di insegnamento.

Si tratta, allora, di distinguere:

a)    le funzioni di tutorato come garanzia di “cura educativa” per lo studente o gruppo di studenti, o per l’intera classe;

b)    la funzione di coordinamento come garanzia di unitarietà e coerenza tra i diversi insegnanti operanti in una classe;

c)    l’articolazione e la specializzazione degli insegnamenti in ambiti pluri-disciplinari, come garanzia di più efficace alfabetizzazione e formazione culturale.

In questo momento si confrontano idee diverse su questi temi e affiorano interrogativi legittimi: l’efficacia di queste funzioni è meglio garantita dal concetto di “comunità tutorante” (con piena condivisione e assunzione di responsabilità, anche articolate tra i membri di una equipe pedagogica) o dalla assegnazione di funzioni specialistiche di tutorato ad un solo docente? Quali sono gli effetti “collaterali” dell’una e dell’altra scelta? Quali i margini di autonomia praticabili dalle scuole, senza varcare le soglie dell’illegittimità dei comportamenti?

 

Non basta dire tutor . . .

Per rendere possibile una serena riflessione proponiamo di non partire da una analisi filologica del testo di legge, le cui interpretazioni non a caso sono oggetto di contenzioso di fronte a vari organi giurisdizionali, non ultima la Corte Costituzionale, invocata dalle Regioni Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia, che hanno ritenuto alcuni passaggi del D.lvo 59/2004 (tra cui quello relativo al “tutor”) lesivi delle prerogative dell’autonomia scolastica. Non possiamo soffermarci ora su tali questioni, anche perché non ci convince un approccio “giurisidizionale” alla riforma, quasi che il futuro della scuola italiana dovesse essere deciso da carte bollate, ricorsi, tribunali e giudici. Una riforma è prima di tutto un processo culturale di lunga durata e le “buone leggi” si fanno apprezzare soprattutto perché rispondono a stati d’animo ed esigenze largamente diffuse tra i cittadini.

Comunque, anche sotto il profilo giuridico, occorre annotare a margine qualche incertezza nella delineazione della figura professionale del tutor, una figura che non si trova all'interno della legge 53/2003, che emerge con alcune particolari accentuazioni nel decreto legislativo 59/2004, ma con altre negli allegati A-B-C-D dello stesso decreto, e che viene “ridimensionata” dalla CM 29/2004, ove si afferma che le funzioni tutoriali non possono dar luogo ad una diversa e nuova figura professionale di insegnante. Inoltre, fa discutere il diverso “trattamento” che le norme attribuiscono a questa funzione nei diversi livelli scolastici: nella scuola dell’infanzia entrambe le docenti titolari di sezione possono assumere funzioni tutoriali, nelle prime tre classi della scuola elementare la funzione va attribuita ad un docente con un vincolo orario di 18 ore di insegnamento, nelle classi quarte e quinte elementari, nonché nella scuola media, non sono prescritti “vincoli” orari particolari.

Ad evitare una situazione di stallo, la questione del “tutor” dovrà essere affrontata nei suoi aspetti pragmatici e professionali, evitando di interpretarla in termini ideologici. A ben vedere attorno all’immagine contrastata del tutor si celano tre distinti problemi che vanno analizzati con molta attenzione:

-          le funzioni tutoriali (di accoglienza, ascolto, orientamento, accompagnamento, esplorazione delle potenzialità e degli stili di apprendimenti di ogni alunno); sono funzioni talmente intime e connaturate alla qualità di ogni insegnante che si fa strada l’idea di condividerle tra i docenti di un team (il c.d. tutorato “diffuso”); le nuove indicazioni propongono, però, un “tutorato specifico”: è possibile studiare forme di affidamento tutoriale affidate a più docenti e rivolte a diversi gruppi di alunni?

-          il coordinamento di un’equipe docente, di un gruppo di adulti, come capacità di coesione, tenuta del compito, documentazione dei percorsi, ecc.: come si possono svolgere tali funzioni, a quali condizioni, con quali responsabilità, con quali vantaggi per l’intero team docente?

-          i tempi delle diverse discipline, la loro aggregazione in ambiti (che è responsabilità attribuita al collegio dei docenti, in base al Regolamento dell’autonomia), i ritmi della settimana, l’equilibrio di una giornata “distesa (condizione che viene raccomandata all’interno dello stesso decreto 59/2004).

Proviamo, allora, ad individuare i nodi problematici che stanno alla base di queste diverse dimensioni, frettolosamente aggregate in una sola figura dalle ultime disposizioni normative.

 

Non c’è solo il tutoring . . .

Una questione complessa come la funzione tutoriale nell’insegnamento, richiede di essere avvicinata con prospettiva di ricerca aperta: il tutoring (orientamento all’autonomia) non è il coaching (guida normativa), non è l’holding (“tenuta” psicologica del gruppo), non è il “counceling” (la relazione di aiuto). Le funzioni tutoriali non è detto assumano una prevalente curvatura psicologico-esistenziale o simbolico-affettiva, perché hanno a che fare anche con una dimensione pragmatica (di sostegno alle strategie di apprendimento), metodologica e organizzativa (relativa ai metodi di studio, ai tempi e ai ritmi, all’organizzazione dell’apprendimento).

Anche il mondo della ricerca tiene aperto il dibattito sul significato delle funzioni tutoriali, sulle diverse possibilità di interpretarle, sul rischio di enfatizzare l’assunzione di responsabilità tutoriali in una sola figura. Alcuni autori preferiscono parlare di comunità tutorante, piuttosto che di tutor, proprio per scongiurare fenomeni di deresponsabilizzazione tra chi non è investito di responsabilità tutoriali. Altri studiosi richiamano l’esigenza di evitare che chi svolge funzioni di tutorato (fondamentalmente una relazione di aiuto “disinteressato”), sia contemporaneamente titolare del potere di “valutare”. Altri ancora vedono bene la terzietà della figura del tutor rispetto alle dinamiche di un gruppo o di una classe, poiché in questo modo si potrebbero contenere effetti d’alone o Pigmalione, in grado di disturbare la serenità della relazione (avremmo quindi un tutor “esterno”).

Insomma, questioni così delicate non possono essere risolte con provvedimenti di natura esclusivamente amministrativa, ma devono usufruire di un rigoroso spazio di ricerca e di approfondimento, lontano dalle polemiche e vicino ai problemi concreti delle classi.

 

Quali le implicazioni operative delle nuove funzioni?

Per fare un esempio: come possiamo concretamente declinare le funzioni tutoriali? Quali sperimentazioni probanti abbiamo condotto in merito a diverse modalità di svolgimento di tali compiti? E’ possibile tenere distinto il ruolo di coordinatore didattico (del team docente) dalle funzioni “tutoriali” (da svolgere nei confronti degli alunni), come avviene in genere nelle scuole secondarie superiori?

Le funzioni tutoriali potrebbero essere svolte in maniera più articolata e più approfondita, certamente più condivisa, da tutti gli insegnanti del gruppo docente, con la “presa in carico” di gruppi di allievi (e non di tutti gli allievi). Forse è opportuno non diminuire gli orari di insegnamento ai docenti che assumono diversi compiti, piuttosto riconoscendo incentivi economici (questo sembra essere l’orientamento che emerge al tavolo negoziale presso l’ARAN).

Occorre poi conoscere come la questione tutoriale viene proposta in altri paesi europei, in altri contesti formativi, nella letteratura specializzata[1]. Si rischia di adottare in maniera acritica nuovi modelli professionali ed organizzativi, senza un'approfondita ricerca di natura culturale.

È vero. Ci sono le leggi e i decreti da applicare, ma le norme non possono essere considerate la fonte esclusiva di un dibattito culturale che deve rimanere del tutto aperto. Dobbiamo tenere distinti gli assetti normativi (pedagogici, didattici ed organizzativi, classificati come transitori nel D.lvo 59/2004) dalla ricerca pedagogica, che deve continuare ad alimentare la vita della scuola in coerenza con la riconosciuta autonomia di ricerca, di sviluppo e di sperimentazione.

 

Ma il team docente è superato? Che giudizio diamo dei moduli? E della pluralità docente?

Certamente, nei documenti che hanno accompagnato la legge 53/2003, viene espressa una valutazione fortemente critica (anche se in forme implicite) dell’organizzazione modulare introdotta nella scuola elementare con la riforma del 1990 (legge 148), suggerendo l’opportunità di superare il sistema della pluralità docente e dell’insegnamento in team. Ma la figura del tutor non può rappresentare la soluzione dei problemi cognitivi, relazionali, gestionali di classi elementari sempre più complesse.

Detto questo, e senza dimenticare i valori positivi di questi anni (corresponsabilità, contitolarità, collegialità), anzi per rafforzarli, si può e si deve migliorare l’organizzazione del team docente, sviluppando i dispositivi di coordinamento interno, assicurando una più graduale differenziazione di figure docenti lungo il quinquennio, a partire dai due ambiti “radice”: quello logico-linguistico-espressivo (il quaderno a righe) e quello logico-critico-scientifico (il quaderno a quadretti). Nelle classi iniziali potrebbe non essere necessario disporre di orari specifici o di docenti ad hoc per l’insegnamento della storia, vista la nuova configurazione lineare del curricolo di storia, da coordinare in verticale con la scuola media.

La solidità dell’esperienza del tempo pieno o della scuola dell’infanzia può essere una “buona pratica” da utilizzare per ripensare alla configurazione di un’equipe docente che via via si arricchisce di nuove presenze, di nuovi insegnanti, di nuovi laboratori, di nuove discipline.

 

Cosa significa coordinamento didattico?

C’è un’esigenza di coordinamento tra gli insegnanti, che non può essere affrontato in termini burocratici o amministrativi, ma come scelta funzionale ad una più efficace tenuta unitaria del gruppo docente, considerandola un valore apprezzato dai genitori e necessario ai ragazzi.

Una simile funzione è “naturale”, “spontanea” ? Basta dedicare a questo momento alcune ore alla settimana (due per la precisione, come avviene da ormai vent’anni nella scuola elementare) per considerarla realizzata?

Ma che cos’è il coordinamento? Ha a che fare solo con la gestione del “setting” delle riunioni, con l’efficacia delle decisioni prese? È un problema da affrontare soprattutto in termini di capacità di ascolto reciproco, di automonitoraggio, di tolleranza alla frustrazione (il rapporto con l’altro è sempre una ferita per il proprio io)? O magari con una più forte attenzione al benessere tra gli adulti, alla costruzione di un clima positivo, all’incremento di motivazioni, alla voglia di ben fare e figurare (empowerment)?

Ma da un gruppo educativo (da un’equipe pedagogica, come si esprimono i nuovi documenti) ci aspettiamo qualcosa di più, la capacità di condivisione di un progetto educativo, la costruzione e la gestione di un vero e proprio patto (contratto) formativo con gli allievi ed i loro genitori.

Infine, il coordinamento ha a che fare con una domanda di unitarietà dell’insegnamento, di connessione “sensata” dei diversi apporti specialistici, quindi con l’esigenza di una regia (condivisa) del progetto della classe, per costruire un “senso forte” dell’esperienza che accomuna ragazzi e insegnanti.

Tutto questo non è frutto spontaneo della vita del gruppo, richiede un alto tasso di professionalità e, ci permettiamo di aggiungere, una regia capace di garantire la piena assunzione di responsabilità educative da parte di tutti i docenti del team. È dunque una funzione da mettere a fuoco, da studiare, da consegnare alle decisioni di un’equipe matura. Ma è anche evidente che si tratta di un problema ben diverso da quello dell’esplicazione di funzioni tutoriali nei confronti di questo o quell’allievo.

 

A proposito di saperi e di pluralità? Bruner o Morin?

Infine, un’ultima questione, riguarda il numero dei docenti che operano in una classe, l’assegnazione di discipline ed ambiti agli stessi, le ore di insegnamento in una o più classi. Tutti aspetti che assumono una più cogente rilevanza nella scuola elementare, perché da un lato non sono previste indicazioni nazionali sui tempi delle diverse discipline (come si evince invece dalla tabella allegata alle Indicazioni nazionali per la scuola media), ma dall’altro si prescrivono alcuni criteri temporali per le classi prime, seconde e terze: è pur vero che le 18 ore si riferiscono alla semplice estensione minima delle attività di insegnamento settimanale (non essendo stata aggiunto, nel testo del D.lvo 29/2004, la precisazione “all’interno dello stesso gruppo classe”), ma è ragionevole collegare questo dispositivo con quanto previsto nell’allegato B del decreto (“vincoli e risorse”) ove si rende esplicita l’intenzione di assicurare una più lunga permanenza di un solo docente con il medesimo gruppo di allievi (dalle 18 alle 21 ore settimanali).

Ritorna dunque un vecchio problema, che già si era affacciato dalle pagine dei programmi didattici del 1985 (nel capitoletto relativo all’organizzazione), quando per le prime due classi era prevista una forma di docenza “prevalente” con affiancamento di collaborazioni più limitate di altri docenti, mentre per le classi terze, quarte, quinte, si sposava più esplicitamente la formula del team teaching, cioè dell’insegnamento di squadra. La scuola, però, ha finito con l’optare in misura ampia per una pluralità “paritaria” per tutte e cinque le classi.

Oggi, dopo vent’anni di organizzazione modulare, emerge senza dubbio una più forte richiesta di unitarietà nell’esperienza di apprendimento dei bambini. Si percepisce il rischio di un sapere frammentato in nicchie disciplinari (ma non saranno solo gli insegnanti ed i bibliotecari a voler classificare il sapere in scaffali separati, in cattedre e discipline scolastiche?). Dobbiamo certamente ripensare al nostro rapporto con i saperi disciplinari, al loro valore formativo, più gnoseologico che epistemologico: la pulizia epistemica dei saperi e delle singole discipline (che vale soprattutto per gli adulti) deve intrecciarsi con i vissuti dei bambini, con la loro esperienza, con le dinamiche relazionali ed affettive di ogni classe.

Il curricolo disciplinare non può essere pensato come una “montagna” da scalare, dove la responsabilità poggia sulle sole gambe degli allievi: finendo con il separare chi ce la potrà fare da chi no. Oggi più che mai curricolo (anche nella versione, tutta da approfondire di “piano di studi personalizzato”) deve significare “contesto di apprendimento”, cioè qualità della mediazione assicurata dal docente, dal gruppo docente, per favorire la salita sulla “montagna” dei saperi. Insieme, allievi e insegnanti, ce la possono fare.

Questo sembra il significato più appropriato dello stesso termine di “personalizzazione”, cioè la massima capacità di costruire un ambiente di apprendimento “complementare” alle differenze rilevate e osservate tra gli alunni, una didattica personalizzante capace di tenere conto delle differenze senza trasformarle in irrimediabili diversità. La personalizzazione, ancora una volta, richiede un impegnativo gioco di squadra tra gli insegnanti, impegnati a costruire un appropriato contesto di apprendimento, dove gli aspetti cognitivi si legano irrimediabilmente con quelli sociali ed affettivi.

In definitiva, al primo Bruner (lo strutturalista dell’”insegnare tutto a tutti” con molto ottimismo, che campeggiava sulle pagine dei programmi del 1985, con il loro gusto dei saperi, delle discipline, della pluralità) dovremmo affiancare il secondo Bruner (quello della “conoscenza come comprensione”, dell’arte della “narrazione”, del “dialogo” attorno al “significato” dei saperi).

La “nuova” scuola potrebbe ripartire di qui, da un’approfondita riflessione culturale e pedagogica, non dall’inconfessabile desiderio di una “rivincita” nei confronti delle riforme degli anni ’80 e ‘90. Chiediamoci con serenità: l’unitarietà dell’esperienza di apprendimento è assicurata dal rigore della progettazione del team degli insegnanti (competenti ed appassionati dei loro saperi, per coinvolgere ed appassionare i ragazzi) o dalla presenza di un unico docente o di un docente fortemente prevalente (con il rischio di una competenza superficiale, generica ed affrettata sui saperi) ?

 

Serve un “bel gesto” reciproco

Oggi il mondo della scuola sembra essere caratterizzata dalla difficoltà di far dialogare due scuole assai lontane: la scuola legale (con le sue leggi, i suoi decreti, le circolari, le scadenze, gli adempimenti di legge) che si muove con una impressionante velocità (perché le riforme, ai tempi del maggioritario, si devono realizzare in tempi fisiologicamente più ristretti rispetto a quanto avveniva ai tempi della “prima repubblica”); dall’altra la scuola “reale” (alle prese con i suoi problemi quotidiani, con gli affanni, le risorse non sempre abbondanti e, perché no, la sicurezza delle proprie routine e delle proprie abitudini: le schede di valutazione, i libri di testo, le programmazioni, ecc.) che vede sempre con diffidenza le proposte di cambiamento.

Per uscire dall’empasse delle due scuole, che non si vedono e non si parlano, servirebbe un bel gesto reciproco.

Dal lato della scuola legale: il riconoscimento del disagio e dell’esigenza di tempi più distesi per le innovazioni, di un maggior coinvolgimento della scuola reale, di una maggiore fiducia nell’autonomia e nella capacità degli insegnanti di adottare soluzioni anche originali alle questioni poste. In pratica, significa sfruttare fino in fondo due possibilità offerte dal nuovo quadro normativo:

-         l’elaborazione di indicazioni programmatiche “definitive”, ivi compreso il “nucleo essenziale” prescrittivo dei piani di studio (fino ad oggi non definito), attraverso un largo consesso di esperti e di competenze scientifiche e culturali, all’insegna di quel pluralismo pedagogico che ha contraddistinto la scuola italiana degli ultimi quarant’anni;

-          l’adeguamento dei decreti applicativi (ricordiamo che è possibile modificarli nell’arco di 18 mesi dalla loro approvazione) in modo tale che siano riconosciute alcune esigenze poste dalla scuola, in materia di autonomia organizzativa e didattica, con il superamento di prescrizioni troppo rigide e minute (ad es, le 18 ore di prevalenza o l’unicità della funzione tuoriale).

Dall’altro lato, quello della scuola “reale”: il bel gesto potrebbe essere rappresentato dal sincero intento di entrare nel merito delle questioni che legittimamente un legislatore (delegante e delegato) ha diritto di proporre alla scuola del paese che è chiamato a governare. Andando al di là del gergo superficiale del nuovo lessico si tratta di affrontare le questioni:

-         dell’attenzione ai soggetti, alle persone, alla qualità della loro formazione e del successo formativo, attraverso un principio di personalizzazione che dovrebbe essere concretamente praticato nella vita delle classe, piuttosto che inseguito attraverso improbabili piani di studio personalizzati;

-         della gestione in termini di flessibilità delle variabili del tempo scuola (nelle sue dimensioni di obbligatorietà, di facoltatività e di opzionalità, di servizi di supporto), dei gruppi (dalla classe ai laboratori, ai piccoli gruppi, all’autoapprendimento, allo studio individuale o in rete) e comunque di tutte le condizioni organizzative che consentono di allestire un contesto di apprendimento efficace ed attento ai singoli (oltre che condiviso con i genitori);

-          della maggiore cura educativa richiesta alla funzione dei docenti, da non interpretare in termini vagamente moralistici o psicologici, ma come funzione di aiuto all’apprendimento dei ragazzi, all’autonomia, alla ricerca di senso e di partecipazione, ben sapendo che in gioco non c’è solo una tecnica di insegnamento, ma una dimensione sociale, affettiva, relazionale, identitaria, nel confronto tra modelli culturali e di comportamento di adulti e di giovani.

Forse con un bel gesto reciproco la strada delle riforme diventerebbe un cammino, sempre difficile ed incerto, ma almeno più condiviso. La speranza è che anche le parti sedute al tavolo negoziale (cioè le organizzazioni sindacali, l’ARAN e il Governo) riescano a trovare un punto di accordo che, sulla specifica questione tutoriale, consenta ampi margini di ricerca e di adattamento, proponendo alle scuole un approccio “sperimentale e flessibile” nella gestione dei nuovi compiti affidati agli insegnanti, sulla base dei criteri deliberati dai collegi dei docenti e rispettosi dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche.

 

(*) da "Notizie della scuola", n. 5, 1-15 novembre 2004, Tecnodid, in un fascicolo monografico intitoalto "Gruppo docente e funzioni tutoriali"

 


[1] ISFOL, Il tutor nella scuola, nella formazione professionale, nell’apprendistato e nei servizi per l’impiego, Materiali di lavoro, Seminario nazionale ISFOL, Roma, 9-10 dicembre 2003 (gli atti sono in corso di pubblicazione per la casa editrice F.Angeli); M.Spinosi, Tutor, in G.Cerini-M.Spinosi (a cura di), “Voci della scuola 2003”, Tecnodid, Napoli, 2002; L.Perla, Il coordinatore-tutor. Appunti per una nuova modellistica”, inserto monografico di “Scuola e Didattica”, La Scuola, Brescia, 2003; O.Scandella, Tutorship e apprendimento. Nuove competenze dei docenti nella scuola che cambia, La Nuova Italia, Firenze, 1995; F. Manfredda-M.Busi (a cura di), Il tutor nella formazione, inserto di “Professionalità”, n. 82, La Scuola, Brescia, luglio-agosto 2004.