Parere di "Nuova Secondaria"
sul Documento intitolato
«Il curricolo nella scuola dell’autonomia».

 da Educazione & Scuola del 20/4/2007

 

Questo secondo Documento rende esplicite due tendenze purtroppo presenti, sebbene in maniera più dissimulata e circoscritta, anche in quello precedente: il neocentralismo dirigistico e l’autoreferzialità tecnicistica della scuola.

Per il primo aspetto, valgano le seguenti citazioni, con relativo commento.

«Con il riconoscimento dell’autonomia alle istituzioni scolastiche il posto che era dei programmi nazionali viene preso dal Piano dell’Offerta Formativa che, come è affermato nella vigente normativa, è "il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche"». Come a dire: se prima dell’autonomia, le scuole e i singoli docenti dovevano «obbedire» ai programmi di insegnamento redatti dal ministero, adesso i singoli docenti devono considerare il Pof elaborato dalla scuola come i programmi di insegnamento ministeriali del passato; perciò, «obbedire» al Pof. Per l’azione professionale dei singoli docenti, dunque, non cambia nulla: se prima c’erano i programmi di insegnamento, oggi c’è il Pof, il cui «cuore didattico» è «il curricolo».

«Il programma prescrive una lista di obiettivi e di contenuti definiti centralmente ed a prescindere da ogni riferimento alle realtà locali: ad essi il docente deve riferirsi ed applicarli nel suo insegnamento. Anche il curricolo propone obiettivi e contenuti, compresi quelli definiti dal centro e prescrittivi, che garantiscono l’unitarietà del sistema nazionale, ma in essi trova spazio l’attenzione alla realtà sociale nella quale la scuola è inserita, la sua cultura, le specifiche esigenze rilevate nell’ascolto dei bisogni degli alunni e nel confronto con le richieste e le attese delle famiglie e del territorio».
Sembra quindi, per l’estensore, che il curricolo sia un’espansione quantitativa e qualitativa delle Indicazioni nazionali. Espansione che per essere prodotta ha bisogno della professionalità dei docenti della scuola. Essi ascoltano le esigenze della persona dello studente (intesa nel modo individualistico richiamato nel Documento del 3 aprile), censiscono le attese della famiglia e le risorse del territorio, infine elaborano il curricolo per trasformare la persona in cittadino e in uomo planetario.

Osservazioni critiche per il neo centralismo dirigistico. Senza voler discutere la legittimità pedagogica di un’operazione caratterizzata dai fini e dalle procedure prima dichiarate, non si possono non sottolineare alcuni aspetti che meritano una riflessione.

a) L’attenzione alla realtà locale che il curricolo avrebbe avviene prescindendo «dall’unicità e dalla singolarità» dello studente concreto (Documento del 3 aprile), cioè avviene a priori, un anno o addirittura anni prima dell’incontro vivo dei docenti con i problemi specifici e concreti dei singoli studenti loro affidati, e delle loro famiglie.

b) Per quanto «il curricolo vada costruito nella scuola, e non venga emanato dal centro per essere applicato» e per quanto «tale costruzione debba permettere l’accordo tra istanza centrale, normativa e unitaria, ed istanza locale, pragmatica e flessibile» non viene meno il fatto che si tratti comunque di un prodotto sottratto alla negoziazione diretta e cooperativa degli attori direttamente coinvolti nella sua pretesa azione formativa in situazione (i concreti studenti di un gruppo classe, i loro concreti genitori, i docenti realmente presenti con loro).
Il curricolo, così come è descritto nel Documento, resta, infatti, sempre un adempimento elaborato «da altri», di solito da un’élite di docenti a ciò delegati, che è progettato da soggetti protagonisti per (s)oggetti destinatari che lo devono obbligatoriamente assumere come già elaborato. Non si distingue, in questo senso, come logica, dai vecchi programmi di insegnamento, anch’essi formulati da una ristretta élite di intellettuali e funzionari, ancorché per una massa di destinatari molto più ampia.
Il curricolo di scuola, d’altra parte, è certamente più vicino dei vecchi programmi di insegnamento alle esigenze e ai bisogni degli studenti e delle famiglie di un territorio. Allo stesso modo, il curricolo programmato da un docente o da un’équipe di docenti per i propri allievi è certamente più vicino del curricolo di scuola alle esigenze e ai bisogni degli studenti concreti di ‘quel’ docente e di quell’équipe docente.
Ogni curricolo concepito nel modo presentato nel Documento, tuttavia, proprio perché frutto di una programmazione a priori, non può giungere ad imporsi all’esperienza e alla responsabilità che ogni docente vive nella sua concreta relazione educativa fino al punto da esigere l’immolazione di questa a quello.
Per questo sarebbe opportuno ricordare che non sono le persone a doversi adattare al curricolo di scuola e anche di gruppo docente, ma il contrario. Per questo, inoltre, sarebbe bene lasciare la progettazione del curricolo di scuola e perfino di quello di una singola équipe docente ad un livello di definizione che si può qualificare solo «a maglie larghe», ricco di flessibilità e di opzioni, così che il vero curricolo non sarebbe tanto quello pensato a priori, sulla carta, quanto quello che risulterebbe a posteriori, dall’insieme delle unità di apprendimento realizzate (passaggio dalla programmazione lineare degli anni settanta alla progettazione reticolare e ai piani di studio personalizzati di cui si ha preso atto la normativa citata in premessa).
Del resto, ogni studente non impara ciò che, secondo il curricolo di scuola o d’équipe, dovrebbe teoricamente imparare, bensì ciò che, una volta conclusa l’attività di insegnamento, è riuscito effettivamente ad apprendere. E la verifica della qualità della scuola non è saggio condurla sulle carte programmate a priori, ma sui risultati davvero maturati in concreto, a posteriori.

c) Ancora più problematica la circostanza per la quale l’estensore del Documento definisce «la progettazione curricolare una operazione complessa che coinvolge tutti i fattori connessi con il processo educativo, dai contenuti agli esiti formativi, dalla modalità di realizzazione ai condizionamenti dovuti alle situazioni socioambientali». Esagerazioni retoriche a parte, come è possibile riproporre, oggi, un’immagine così deterministica e scientistica dei processi educativi e della professionalità docente? Davvero si pensa all’educazione condotta con questa razionalità olimpica, che prevede tutto e controlla tutto, e che imbriglia anche la ricchezza di ogni possibile esperienza che avviene nelle maglie di una predeterminazione onnisciente?

d) Del tutto illegittima, inoltre, è la censura che il Documento infligge all’art. 3, comma 2 del DPR 275/99, dove, proprio a tutela di ogni deriva neocentralistico-dirigistica locale (al posto che nazionale) e della stessa libertà di insegnamento riconosciuta costituzionalmente ai docenti, si ricorda che il POF, e di conseguenza il curricolo, deve «comprendere e riconoscere le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizzare le corrispondenti professionalità». Oltre che alla scuola in quanto persona giuridica, dunque, è anche al singolo docente in quanto persona in carne ed ossa che la norma riserva il diritto-dovere di esprimere un suo proprio curricolo, o almeno una propria coloritura personale del curricolo di scuola o d’équipe docente. In ogni caso, sembra naturale che ogni docente debba, rispetto alle sue classi e ai suoi alunni (quelli, e non altri), predisporre un’azione formativa ad hoc che non necessariamente deve corrispondere al curricolo di scuola e, perfino, nemmeno a quello personalmente programmato in tempi non coincidenti con la diretta situazione educativa e con le sue spesso imprevedibili emergenze.

Per questo preoccupa la tendenza del Documento a valorizzare più l’autonomia della scuola intesa come indipendenza da qualsiasi agente esterno ad essa in quanto istituzione, piuttosto che l’autonomia del singolo docente e dei gruppi di docenti minoritari che lavorano al suo interno. Anzi, si può dire che il Documenti tuteli l’autonomia della scuola in quanto istituzione perfino dall’insidia che potrebbe portare agli organi che la gestiscono la testimonianza di gruppi minoritari di docenti, magari in cooperazione con gruppi di studenti e di genitori. Infatti, a fronte di numerosi interventi sulla "libertà della scuola", più raramente si parla di "libertà didattica e della ricerca" dei docenti, che invece è il punto nevralgico dell’autonomia, il terminale ultimo, senza del quale la centralità della persona umana non ha senso e l’autonomia della scuola diventa un modo per comprimere la libertà personale.

Non si può non convenire sul fatto che non ci sia azione del singolo docente se non all’interno di una collegialità, di una condivisione professionale: ma la collegialità non sostituisce né può condizionare l’azione del singolo fino a privarlo della sua libertà e responsabilità.

Come scrive il Documento, d’altro canto, spetta senza dubbio «alla comunità professionale stabilire la concreta organizzazione degli ambiti di insegnamento, individuando le soluzioni che, nello specifico contesto della situazione in cui si opera, delle risorse disponibili e del progetto pedagogico elaborato appaiano le più efficaci, salvaguardando in ogni caso il principio della collegialità e corresponsabilità del gruppo docente». Ma perché ciò deve escludere il principio che vada in ogni caso salvaguardata la libertà del singolo docente e di singole équipe di docenti non solo di predisporre piani di studio a proprio avviso efficaci per i propri alunni, ancorché non in tutto corrispondenti al curricolo di scuola, ma anche di assumersi la libertà e la responsabilità di rendere conto dei piani di studio personalizzati effettivamente svolti e non corrispondenti con il curricolo programmato prima dell’azione educativa?

In mancanza di questo esplicito riconoscimento, d’altronde, scrivere che la professionalità dei singoli docenti è «fortemente valorizzata e responsabilizzata, poiché la comunità professionale è chiamata ad assumersi significative responsabilità progettuali, nel quadro di un pieno riconoscimento della libertà culturale di ciascuno, all’interno di una dimensione sociale di collaborazione, negoziazione delle scelte, condivisione di una peculiare idea di scuola» e che «attraverso il lavorare insieme (…) si costruisce una comunità professionale ed educativa nella quale la libertà culturale di ciascuno è rispettata e valorizzata, in un confronto responsabile, finalizzato alla delineazione di un progetto alto di scuola, impegnativo per tutti, per tutti significativo» pare più un modo per colpevolizzare e normalizzare, nell’uniformità predeterminata, eventuali originalità di singoli e di gruppi di docenti che per riconoscere davvero la libertà di insegnamento di ogni docente ed equipe docente e, non di meno, la libertà di scelta educativa degli studenti e delle famiglie (art. 21 della legge n. 59/97 e normativa citata in premessa).

È più che da condividere, infine, il principio secondo il quale «il processo di costruzione del curricolo non si conclude una volta per tutte, ma si configura come ricerca continua, grazie all’azione dei docenti, professionisti riflessivi impegnati in un costante lavoro di analisi e di rielaborazione delle loro pratiche didattiche». Sarebbe bene osservare, tuttavia, che lo scopo di una pratica docente fondata sulla continua riflessività critica delle azioni intraprese e sulla sistematica collaborazione con i colleghi non è solo quello della costruzione di un curricolo comune, di scuola o d’équipe, pur utile, ma è anche e soprattutto l’incremento della libertà, della congruità e della soddisfazione educativa e professionale del singolo docente, nel suo rapporto con i «suoi» studenti e con le loro famiglie, e viceversa.

Osservazioni critiche per l’autoreferenzialità. Per l’autoreferzialità tecnicistica che soggiacerebbe al Documento basta ricordare che il soggetto di tutte le operazioni indicate per la predisposizione del curricolo è sempre e solo la scuola. La scuola, inoltre, intesa solo come comunità di docenti che provvede ai bisogni di studenti e genitori, da essa tecnicamente censiti ed educativamente autenticati. La famiglia e lo studente entrano così nella costruzione del curricolo al massimo come oggetti di una sollecitudine e di una cura professionali dei docenti, e non anche come soggetti attivi delle scelte e delle responsabilità curricolari da co-costruire e da condividere con i ‘tecnici’ dell’insegnamento, se non altro almeno in alcuni spazi orario.

Totalmente assente, poi, è il tema della soddisfazione sociale del servizio educativo e culturale della scuola.

Non basta, infatti, a nostro avviso, che la scuola operi secondo precise competenze professionali che il Documento si incarica di evocare, ma è anche necessario che esse siano riconosciute tali dal territorio, dalla società e dal mondo della cultura. E riconosciute come affidabili, degne di stima, apprezzabili. Senza questa condizione aumenta, al posto di diminuire l’estraneità tra interno ed esterno della scuola. E il rispetto che i docenti e la scuola giustamente rivendicano, resterebbe soltanto una rivendicazione velleitaria e corporativa.

Per questo non si comprende perché il Documento taccia dell’opportunità finora riconosciuta dalle norme citate in premessa di identificare non solo una parte obbligatoria del curricolo nazionale e di scuola, ma anche e soprattutto una parte opzionale obbligatoria e una parte opzionale facoltativa. Queste parti, infatti, potrebbero costituire il terreno organizzativo di maggiore incontro tra libertà di scuola, dei docenti, delle famiglie, degli studenti e del territorio, e di maggiore garanzia del superamento di ogni tentazione di autoreferenzialità delle diverse istituzioni coinvolte nel processo educativo.

Osservazioni critiche a proposito della sezione dedicata ai criteri per l’elaborazione del curricolo. Mentre il riferimento all’art. 8 del Dpr. 275/99 ci sembra dovuto e da condividere, destano, a nostro avviso, perplessità tre elementi.

Il primo riguarda il modo con cui si interpreta il termine «obiettivi». Lo si impiega, infatti, in maniera teleologica, con ciò riaprendo il problema classico della distinzione tra «fine», «finalità» e «obiettivi (generali e/o specifici)» dell’educazione, o della loro confusione. E anche riproponendo le vecchie diatribe tra impostazione comportamentistica e spiritualistica del tema che sembravano, finalmente, superate.
Se si assumesse, però, questo vocabolo alla maniera pragmatica della cultura pedagogica che l’ha espresso, quella anglosassone, e lo si riconducesse alla sua natura filologica di object, oggetto, qualcosa di empirico, di solido che rivela qualcosa d’altro, nel caso delle tassonomie dell’apprendimento qualcosa che rimanda ai "contenuti" di fatto padroneggiati nell’apprendimento e resi manifesti dal comportamento degli studenti, alla conclusione di determinati periodi didattici, sarebbe più facile:

a) non interpretare (come invece fa il Documento) gli obiettivi generali del processo formativo come un pleonasmo dei fini e delle finalità dell’educazione che la scuola è chiamata ad organizzare e a promuovere secondo la legge n. 53/03;

b) non interpretare (come invece fa ancora il Documento) gli obiettivi specifici di apprendimento come traguardi prestabiliti e decontestualizzati da raggiungere, e quindi tali da condizionare in maniera talvolta addirittura deduttivistica e deterministica i percorsi di tempo, modo e successione dell’attività didattica dei docenti; gli obiettivi specifici di apprendimento apparirebbero, al contrario, soltanto gli objet, la cui presenza deve essere censita e valutata dai docenti (e anche dal servizio di valutazione nazionale) al termine di determinati percorsi di istruzione e di formazione per verificare la qualità cognitiva e culturale delle competenze maturate nel percorso scolastico;

c) non confondere gli obiettivi specifici di apprendimento posti nelle Indicazioni nazionali agli scopi del punto b) con gli obiettivi formativi delle unità di apprendimento predisposte per gli studenti, tipici dei piani di studio personalizzati che la norma assegna all’esclusiva responsabilità professionale dei singoli docenti (problema su cui invece il Documento inspiegabilmente tace, ma anche problema decisivo per riconoscere ai docenti una vera autonomia professionale).

Per questo, ci si domanda se al posto di riaccreditare, come fa il Documento, i caratteri della vecchia logica programmatoria del curricolo, non sarebbe più conveniente che ne prendesse congedo e si invitasse, invece, ad un più laico e spassionato perfezionamento delle Indicazioni nazionali vigenti alla luce dei seguenti criteri:

eliminare tutte le parti di tipo metodologico che ancora vi permangono e che ne appesantiscono la lettura;

essenzializzare, negli obiettivi specifici di apprendimento, la lista delle conoscenze, togliendo loro i caratteri a volte troppo dettagliati;

valorizzare, sempre negli obiettivi specifici di apprendimento, la lista delle abilità (saper fare) che, in una scuola abituata considerare importanti ai fini della verifica finale solo le conoscenze (il sapere qualcosa), costituisce un antidoto al tradizionale nozionismo e un impulso a scoprire che c’è e ci deve essere pensiero e logica anche nell’operatività.

Un secondo elemento di perplessità riguarda il modo di interpretare e avvalorare le competenze. In verità, il Documento recepisce una fondamentale maturazione della letteratura pedagogica, ovvero il principio che, nella scuola, le conoscenze e le abilità disciplinari e interdisciplinari che i docenti sono tenuti ad insegnare non sono fini a e in se stessi, ma sono strumenti per promuovere lo sviluppo delle competenze personali degli allievi. È questo, d’altra parte, il senso preciso dell’art. 8 del Dpr. 275/99 quando ricorda che compito dello Stato è dettare gli obiettivi specifici di apprendimento (conoscenze e abilità) che la scuola è chiamata a finalizzare alle competenze degli allievi.

Nel prosieguo del Documento, tuttavia, e in particolare nella sezione specifica dedicata alle competenze essenziali, esso offre molto più che l’impressione di (ri)proporre anche per le competenze la concezione sostanzialistica ed oggettualistica tipica delle conoscenze. Esse, infatti, sarebbero oggetti che, al pari delle conoscenze e delle abilità, la scuola sarebbe chiamata ad ordinare e a trasmettere, nell’insegnamento. Non sarebbero affatto quanto l’allievo mostrerebbe di possedere come persona, affrontando in situazione problemi, compiti, progetti autentici e reali, che hanno a che fare con la sua vita sociale, culturale, professionale.

Questa concezione oggettualistica delle competenze giunge al punto di immaginare la possibilità di scomporle a priori in moduli anche quantitativi che le contraddistinguerebbero, di insegnare poi i moduli così identificati e di pensare, infine, che dalla loro somma scaturirebbe la competenza unitaria finale da promuovere. Per questo ci sarebbe addirittura la possibilità di praticare una programmazione scolastica delle competenze, e di pensare ad un curricolo per competenze, oltre che per conoscenze ed abilità disciplinari e interdisciplinari. Dimenticando, però, in questa maniera, che la competenza, essendo una qualità del soggetto che si mostra in azione, non si può decontestualizzare da esso e dalla situazione reale in cui egli le manifesta. E soprattutto non la si può insegnare al pari di qualsiasi conoscenza o abilità, perché implica già la trasformazione di queste in un patrimonio personale che va ben oltre gli aspetti soltanto cognitivi, ma coinvolge tutti gli aspetti della persona umana.

Per questo colpisce, a nostro avviso, il silenzio del Documento sulla parte forse più innovativa e importante degli allegati al dlgs. n. 59/04, ovvero il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo.

Che fine farà questo strumento pensato proprio per evidenziare il passaggio da una scuola delle conoscenze ed abilità, purtroppo spesso ridotta a nozionismo, ad una scuola delle competenze, dove l’istruzione è e deve essere sempre «educativa», cioè un’occasione per una maturazione globale della persona che si manifesta anche dinanzi ai problemi, ai compiti e ai progetti più parziali?

Il terzo elemento di perplessità riguarda l’antagonismo che il Documento ha voluto rintracciare tra individualizzazione e personalizzazione. Se è vero, infatti, che ‘individualizzazione’ significa impegno per dare a tutti lo stesso bagaglio di competenze nei percorsi formali di istruzione, sebbene in tempi, modi e condizioni diverse, adatte a ciascuno; ‘personalizzazione’ significa trovare e assicurare le condizioni organizzative, professionali ed umane perché questi processi di ‘individualizzazione’ non siano mai decisi da altri, magari in maniera burocratica, ma siano sempre ragionati, conosciuti e scelti da ogni studente, insieme alla sua famiglia, come un arricchimento di sé e del senso da attribuire alle attività educative e didattiche. In questa direzione i due termini appaiono più complementari che antagonisti.

 

Scuola-azienda degli standard?

Un’ultima questione posta dall’insieme dei materiali inviati per la consultazione riguarda l’opportunità di definire gli standard degli obiettivi specifici di apprendimento e addirittura delle competenze.

L’educazione delle persone è compatibile con la determinazione di standard minimi di prestazione relativi sia all’apprendimento di semplici e meno semplici conoscenze ed abilità disciplinari, sia alla maturazione di più complesse competenze. Anzi, forse bisogna dire che non ne può prescindere. Dipende solo se gli standard minimi sono adoperati come mezzo per l’educazione personale dello studente, oppure costituiscono il fine dell’attività scolastica. Se lo standard (per fare un esempio: "scrivere almeno 90 righe di testo, in un’ora, facendosi capire dal destinatario, rispettando la sintassi del periodo e non commettendo più di un errore ortografico") è, infatti, presentato dal centro e usato e percepito dai docenti e dalle famiglie come il fine dell’attività scolastica sarà naturale organizzare la didattica di conseguenza, cioè ritenerla la tecnica necessaria per raggiungere questo scopo. A qualsiasi costo. Con qualsiasi mezzo.

Se, al contrario, lo standard minimo è formulato dal centro e usato e percepito dai docenti e dalle famiglie come un mezzo prezioso per far maturare le competenze intellettuali, operative, espressive, comunicative ecc. di ogni studente, nella sua vita personale e di relazione, la prospettiva cambia parecchio. Non è più il letto di Procuste a cui ciascuno si deve adattare a priori, pena l’esclusione dal circuito della positività, ma è piuttosto l’inverso. In determinate circostanze e in presenza di determinate biografie o di particolari passaggi evolutivi (l’eterocronia dello sviluppo è cosa notissima), il docente e la famiglia possono, infatti, anche accettare che lo standard indicato come minimo per la conclusione di un biennio didattico o addirittura di un ciclo scolastico sia solo parzialmente raggiunto ed essere allo stesso tempo soddisfatti di questa mancata soglia. L’importante è che ciò avvenga in un efficace processo di maturazione globale della personalità dell’allievo che solo chi lo vede in azione e in situazione giorno per giorno è in grado di cogliere e di certificare (sebbene con strumenti narrativi e qualitativi più che quantitativi).

La normativa citata in premessa, obbedendo all’art. 8 del Dpr. 275/99, e proprio per impedire che si potessero pensare e percepire come fini dell’attività scolastica, non ha, dunque, dettato standard minimi nazionali. Non li ha dettati né per gli obiettivi specifici di apprendimento cioè per le conoscenze e le abilità disciplinari elencate nelle Indicazioni nazionali, che i docenti sono obbligati ad usare nelle loro attività scolastiche per far maturare le competenze attese per tutti e per ciascuno nel Profilo educativo, culturale e professionale dello studente; né, tanto meno, per ogni competenza attesa, descritta nel Profilo stesso.

Valorizzando l’autonomia e la professionalità dei docenti, e a tutela del carattere strumentale e non finale degli standard, ha affidato, invece, la responsabilità di individuare gli standard ad un combinato disposto costituito dall’intreccio tra i docenti stessi (livello locale: si badi i docenti e le équipe di docenti, non la scuola come persona giuridica) e l’Invalsi (livello nazionale).

Poiché, infatti, sono i docenti che decidono quando, come, con quali mediazioni, in che contesto e a che livello gli obiettivi specifici di apprendimento sono e diventano davvero formativi per la maturazione delle competenze degli alunni concreti che hanno dinanzi, la normativa in questione ha chiesto ai docenti stessi di non formulare mai gli obiettivi formativi delle unità di apprendimento che promuovono nella loro attività didattica in maniera tale che siano incompleti dei relativi standard di prestazione attesi. In questa maniera, gli standard, necessari, come si diceva, per non rendere ineffabile, mistico, il processo educativo, non sono astrattamente definiti lontano dalle situazioni educative ed esistenziali degli studenti e dei docenti, ma dentro la stessa relazione educativa ed esistenziale che si svolge tra i protagonisti del processo educativo. Non costituiscono, di conseguenza, un prodotto finale da raggiungere mediante un procedimento aziendalistico standardizzato, ma sono essi stessi parte e qualità del processo educativo reale che coinvolge da protagonisti gli attori della relazione educativa.

Allo stesso tempo, però, la normativa citata in premessa aveva chiesto all’Invalsi di identificare un campione nazionale, rappresentativo dell’intero delle scuole e dei docenti, per verificare, con le scuole e i docenti prescelti, quali standard essi avessero realmente assegnato, in situazione, agli obiettivi formativi delle diverse unità di apprendimento che svolgono, e di ricavare poi da questo campione, induttivamente, l’indicazione di standard minimi nazionali medi, relativi sia alle conoscenze e alle abilità (poi sondate dall’Invalsi all’inizio dei bienni didattici), sia alle competenze (poi certificate dai docenti e dalle scuole).

Proprio il modo con cui questi standard nazionali sarebbero stati ricavati ed identificati, tuttavia, avrebbe cautelato, secondo lo spirito della normativa citata:

sia dal rischio di dare alla scuola, ai docenti e alle famiglie l’idea che il loro compito fosse di costruire un’azienda per il raggiungimento in serie degli standard minimi anche quando ciò non risultasse formativo per il singolo studente nella situazione data;

sia dal rischio di far coincidere l’intero dell’educazione degli studenti con il raggiungimento degli standard indicati (l’educazione personale di ciascuno è sempre qualcosa di più e di più complesso degli standard anche più analitici!);

sia dal rischio di immaginare che solo una commissione di esperti ministeriali potrebbe illuministicamente stabilire dall’alto gli standard minimi nazionali, considerando le scuole, i docenti e le famiglie destinatari passivi di decisioni al riguardo che, al contrario, principio di sussidiarietà vorrebbe scaturite da un protagonismo di questi diversi attori;

sia, infine, dal rischio di non far comprendere subito a studenti, docenti, famiglie e opinione pubblica che gli standard minimi nazionali non possono che essere sempre mobili nel tempo, avere una funzione valutativa orientativa più che formalisticamente prescrittiva e provenire da una continua e sistematica interlocuzione con la scuola reale (e nel tempo, cambiando il campione nazionale, con tutta la scuola reale), per migliorarne affidabilità, qualità e responsabilità.

L’insieme dei documenti trasmessi per il referinaggio sembrano, tuttavia, respingere questa impostazione. Da più passaggi, infatti, si ricava l’impressione che, nel nuovo corso, si vogliano formulare a priori, dal centro, gli standard minimi nazionali relativi sia alle conoscenze e alle abilità disciplinari delle Indicazioni nazionali sia alle competenze del Profilo. E che l’intera esperienza scolastica sia poi pensata di qualità se consente di raggiungere questi standard. Non pare una scelta coerente, però, né con il principio di sussidiarietà, né con il principio di una scuola educativa, né, tanto meno, con l’intenzione di snellire le Indicazioni nazionali. A meno che, per standard, si intendano formulazioni tanto generiche quanto sintetiche che verrebbero però meno alla funzione che tutta la letteratura scientifica assegna alle operazioni indicate da questo termine.